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sabato 30 luglio 2011

Capitolo 16 - Le palle di Mozart

La prima volta successe quando aveva quattro anni. Era a spasso nei boschi attorno ai pendii dell’Untersberg con suo padre e il cinghiale neppure lo vide comparire. Approfittando di una sosta si era seduto a riposare all’ombra di una quercia e quella belva sbucò, all’improvviso dai cespugli, con indosso la furia dei secoli. 
Era sopravvissuto perché la bestia, anziché lacerargli la carne con le zanne, aveva iniziato stranamente a morderlo.
Prima che suo padre potesse intervenire, però, aveva perso il naso e metà dell’orecchio destro e un profondo squarcio grondante sangue gli deformava uno zigomo.
Un dramma che costrinse il bambino a frequentare ospedali di varie città austriache e tedesche in cerca di un’operazione di plastica facciale che gli restituisse una fisonomia simile a quella degli altri suoi coetanei.
Una tragedia, tuttavia, che servì a fargli percepire una sua dote particolare.

Nella polvere l’uovo che non era uovo riposava e sognava. I suoi pensieri nuotavano in un profondo e lugubre mare nero. L’acqua espandeva a dismisura la sua essenza in un mondo appartenente a una dimensione metafisica dove non c’era spazio per le emozioni e per i sentimenti. Tutto era sostanza, cibo e anche il succo della coscienza degli esseri che intralciavano questa dimensione onirica serviva come fonte di nutrimento.

La seconda volta invece accadde una ventina di anni dopo, quando incontrò uno squalo nel mare di Sharm El Sheik, in Egitto. Lo squalo, un pinna bianca del reef, lo aggredì afferrandolo per un testicolo mentre, al tramonto, cercava spugne marine tra i fondali. Riuscì a salvarsi, anche in questo caso, aprendo a forza di braccia le fauci serrate di quel piccolo diavolo che strattonava le sue intimità neanche fossero piccole mele immature sopra un albero.
Un altro anno di cure e di ospedali, e una certezza: quella sua dote particolare non funzionava nell’acqua.

Nel sogno l’uovo che non era un uovo, vagando nelle profondità marine, divorava tutto ciò che incontrava: banchi di pesce e strane creature degli abissi. Vagò per periodi eterni e immoti senza meta e destinazione. Alla fine si spinse nelle fredde acque artiche e divorò un cetaceo enorme, usufruendo dell’alito vitale di quel mammifero gigantesco per spostarsi a velocità impensabili in quella densità senza aria. Divenne fuoco nell’acqua e folgore nel buio. Tempesta nella calma e terrore nel piacere.
Inferno nel paradiso.

Adesso di anni ne aveva trentadue ed era considerato un uomo anormale: epilettico, storpio quando il tempo era umido e completamente sordo da un orecchio. Si manteneva con i soldi della ricca eredità e ad accudirlo ci pensava sua nonna Anastasia. 
Era un uomo apparentemente inutile ma con un potere proprio lì. Lì in quel timpano distrutto dalla forza bruta della natura. Un potere anomalo sviluppato dal suo cervello nel dolore. Un dono che percepiva il male, nelle persone, negli animali, nelle cose… nelle case.
Hans sorrise pensando a queste sua particolarità, poi guardò sullo schermo del computer l’immagine di quella strana Villa mezza distrutta che stava facendo il giro del mondo. E capì cosa c’era scritto nel suo destino.
Allora sorrise di nuovo, quasi con sarcasmo e si alzò lasciando acceso il computer alle sue spalle. Si diresse zoppicando alla finestra e guardò dapprima lo scorrere calmo del Salzach oltre il viale, poi alzò lo sguardo verso i boschi e la Fortezza lassù in alto.
Ci voleva un uomo come lui per affrontare un mostro come quella Casa. Qualcuno che non avesse timori e paure inconsce e fosse in grado di comunicare con il male senza lasciarsi sopraffare da ansie e terrori onirici. Lucidità nel distinguere le sottili differenze presenti nell’essenza delle cose anche a distanze chilometriche.
Lo sapeva lui.

Lo sapeva l’uovo che non era un uovo.
Ora, immobile nella sua attesa e incapace di capire chi fosse veramente.
Sepolto nelle macerie aveva smesso di sognare e sentiva una presenza lontana, malefica e inopportuna e terribilmente negativa. Un nuovo nemico all’orizzonte in possesso della stessa forza distruttrice che nutriva la sua esistenza. Un male inestirpabile in netto contrasto con le sue pulsioni e con la sua necessità di crescere e succhiare vita affinché potesse esistere.
Una forza diversa dagli essere scimmieschi che avevano sbadatamente tormentato la sua progenie, picchiando, martellando, correndo e nascondendosi negli anfratti e nei corridoi della Villa come padroni del tempo.

“Nonna?” chiamò Hans.
La vecchia si presentò sull’uscio della porta pochi minuti dopo.
“Dimmi caro, cosa ti serve?”
“Dovrò partire qualche giorno!”
“Non devi andare!”
Hans scosse il capo. “Cosa ti preoccupa?”
“Conosco quella Casa!”
“Hai sempre vissuto a Salisburgo?”
“Non è questo il punto! I tuoi poteri non t’aiuteranno. Quella Casa ti aspetta.”
“Come lo sai?”
“Lo sento, come la senti tu e sono convinto che anche la Casa ci stia sentendo. Ha paura, ma avrà il tempo di prepararsi.”
Hans alzò le spalle. “Non sa come voglio affrontarla!”
“Imparerà” disse la vecchia. “Stai attento. Lei non sa cosa sia il male. Non conosce nulla dell’astio che la nutre. Non considerarla cattiva. Sei impreparato alla forza della sua natura.”

L’uovo che non era uovo tremò. I rumori all’esterno della villa andavano affievolendosi. Suppose, nel suo modo strano e bizzarro di pensare, che presto qualcuno sarebbe tornato alla carica, ma questo dettaglio non gli incuteva nessun timore specifico e immediato. Sapeva come difendersi e lo aveva dimostrato.
La sua paura proveniva da molto lontano. Sentiva e vedeva aldilà dell’udito e della vista. Il suo terrore era oltre le alpi.
Ora al riparo nel suo guscio protettivo vide, con lo sguardo formato dalla carne di cui si era nutrito, un uomo e quest’uomo saliva zoppicante e lento attraverso un'erta strada di montagna immersa nei boschi. Nei suoi pensieri vide il volto dell’uomo sfigurato. Notò la bava bianca sulle sue labbra e poi quella strana bestia simile a un camoscio, anch’esso bianco che si parò davanti. Vide l’uomo sussultare di spavento e intuì quel terrore di fronte all'ungulato.

Hans rinvenne dopo pochi minuti. Sua nonna gli teneva i piedi sollevati da terra. La crisi, improvvisa, come spesso succedeva, non si era protratta a lungo. Nulla di grave e di diverso dal solito. 
Il ragazzo respirò piano e deglutì. Aveva la bocca secca e un piccolo vuoto nella mente. Ricordò però di aver visto un camoscio bianco. Lo confessò alla nonna.
“Allora quest’anno morirai” costatò Anastasia.
“Lo so” disse Hans, poi concentrò lo sguardo verso una scatola di cioccolatini sistemati sulla vetrina nella sala. La scatola, dopo essere uscita dalla vetrina, si aprì senza che nessuno la toccasse e alcuni cioccolatini contenuti in involucri di carta colorata volarono nella stanza. Librandosi nell’aria si liberarono della carta che li ricopriva e come per magia finirono, uno a uno, nella bocca di Hans che aspettava aperta.
Anastasia sogghignò sarcastica. “Farai la stessa fine” disse.
“Lo so” disse Hans. “Sarà la terza volta”. Inghiottì l’ennesimo cioccolatino. “Il mio destino è scritto, morirò mangiato vivo.”

L’uovo che non era uovo, in un altro luogo, lontano, sotto un cumulo di macerie vive, rise.

martedì 26 luglio 2011

Capitolo 15 - Via di fuga

Sopravvissuti, mistici e scienziati. Uomini d'ordine e di servizio. Disposti intorno alla Villa, si interrogavano, cercavano soluzioni. La tensione non accennava a calare. Qualcuno voleva entrare e seguire gli agenti entrati ormai da un'ora nell'edificio. Altri preferivano attendere. Tutti temevano che fosse ormai troppo tardi. Nessuno badava troppo ai dettagli.

Ma da qualche minuto l'atmosfera intorno alla Villa era sensibilmente cambiata. Non era rassegnazione o stanchezza. Era la casa: il senso d'oppressione, i miasmi che ne uscivano, miscela di marciume vegetale, ruggine e decomposizione, si erano dileguati.
Un osservatore attento avrebbe notato come le pareti dell'ingresso, quei tratti di muro che era possibile scorgere anche dall'esterno, illuminati dalle fotoelettriche del servizio d'ordine, apparivano ora puliti, la muffa che li ricopriva scomparsa. L'aria, fino a poco prima vibrante di rumori sommessi, dei gemiti e delle urla provenienti dalle profondità della casa, s'era improvvisamente fatta silenziosa. Un silenzio per nulla inquietante, anzi: un senso di pace era calato sulla Villa e sulle strade e i giardini che la circondavano.

Ci volle ancora qualche momento prima che la piccola folla che accerchiava l'edificio se ne rendesse conto. Quando successe, quando i primi sguardi interrogativi si incrociarono, il momento era già passato.

Nelle profondità della Villa, nella cantina sotterranea che da sempre la accoglieva, la creatura aveva preso una decisione. Aveva richiamato a sé tutte le sonde (le spore! le muffe!) che tappezzavano il palazzo, raccolto tutto il materiale organico sparso per le stanze (vivo o morto che fosse), iniziato a lavorare al telaio della sua idea.

Successe senza preavviso. Il terreno prese a tremare in sincrono con i tonfi e le esplosioni sommesse provenienti dall'interno della casa. Gli uomini si guardarono perplessi,. Quasi tutti fecero un istintivo passo indietro, qualcuno, forse ragionando su probabilità e fortuna, forse per mera incoscienza, fece un passo avanti.

Gli schianti continuarono, dalle finestre dei piani bassi si videro uscire sbuffi di polvere. Qualche calcinaccio precipitò dalle volte e dalle porzioni più alte dei muri della casa. Tolti i sussulti del terreno e il rumore delle esplosioni sincopate, l'atmosfera pacificata che circondava la Villa non accennava a guastarsi. La frenesia e la tensione delle ore precedenti sembravano scomparse. Santonastaso era quasi sollevato. Boati ed esplosioni erano qualcosa che si poteva affrontare. Sguardi di comprensione passarono veloci lungo le linee di comando: indicavano decisioni operative standard, l'esperienza di un'emergenza conosciuta.

L'uovo che non era un uovo riposava sotto la creatura: nero e corrugato, indifferente alla trasformazione che avveniva nell'ammasso che lo circondava. Silenzioso e apparentemente inerte, attendeva il futuro che sognava.

La creatura cresceva, la carne si fondeva ai tubi di ferro e ottone divelti dalle pareti della casa, alle travi strappate al soffitto. Le ossa dei primi ospiti della casa formavano funzionali incastri e nuove articolazioni. Gli aculei che caratterizzavano una sua incarnazione precedente si erano allargati e spostati in alto, fondendosi in un guscio appuntito. Le mani raccolte pazientemente nel corso degli anni si agitavano, nella loro nuova vita, raccolte in una corona semovente disposta a spirale attorno all'asse verticale, sotto l'anello di crani, che con gli occhi perennemente aperti fornivano un abbozzo di apparato visivo. Un ciuffo di capelli rossi spuntava a circondare un viso femminile, saldato zigomo a zigomo a un volto baffuto, a sua volta legato alla faccia guercia di quella che pareva una vecchia mummia. Altre quattordici teste chiudevano il cerchio, permettendo alla creatura una visione radiale totale.
La creatura cresceva, incontenibile: i tubi si legavano ai cavi di rame estratti dal corpo della villa, che in una rete grossolana trasmettevano gli impulsi elettrici capaci di stimolare nuovi legami, nuove attrazioni. I corpi più antichi formavano la base di una forma conica che strisciava e spingeva verso pareti e soffitto. L'intero ammasso era coperto da una fitta peluria giallo verdastra, formata dagli ammassi di muffa sensibile che prima decorava le stanze dell'edificio e ora coordinava lo sviluppo della creatura. Presto il primo solaio esplose verso l'alto spinto dalla pressione sottostante. La creatura si mosse, strisciando, arrancando, lacerando pareti e pavimento, inerpicandosi inarrestabile al piano superiore. Pezzi di vetro e calcinacci vennero integrati nella sua struttura, che si allargò, premendo sui tramezzi di quella che una volta era la cucina. Le mura, indebolite dall'erosione avvenuta nei sotterranei, ressero ancora qualche minuto scricchiolando. Cedettero di schianto quando la creatura strappò il vecchio boiler dalla parete utilizzando poi i tubi del sistema idraulico per proiettarsi verso il corridoio, attraverso l'apertura ormai divelta della porta della stanza.

L'esplosione delle finestre del piano inferiore riscosse gli uomini raccolti all'esterno che, incerti e lenti, tentavano una qualche reazione. Chi si aggrappava al cellulare, chi si affannava a gridare ordini, chi, ammutolito, portava le mani alla testa alla disperata ricerca di un'idea.
Tutta l'ala orientale della Villa si stava lentamente ripiegando su sé stessa, trascinando nella caduta il corpo centrale dell'edificio. Nuvole di polvere si innalzarono nell'oscurità. Il rumore del crollo riempì ogni spazio, impedendo qualsiasi fuga. Spegnendo ogni pensiero.

La creatura si trascinò verso le luci provenienti dal portone spalancato. Non sentiva nulla, ma vedeva qualcosa muoversi nella polvere dell'esterno, percepiva vita e calore, che l'attiravano come una vecchia promessa.

Quello che gli uomini videro attraversare la nube di scorie provocata dal crollo aveva l'apparenza di un vecchio tronco d'albero potato dei rami più alti. Una forma conica e irregolare, alta tre/quattro metri, larga altrettanto alla base, che si muoveva sbilenca ma rapida su un telaio di tubi e carne morta (l'odore! l'odore!), con una quantità di mani (mani! sinistre!) che tastavano l'aria intorno, come ciechi in mezzo al traffico, e sopra (l'orrore!) diciassette sguardi muti a esplorare silenziosi la direzione e un tappeto di muschio marcescente, ad avvolgere come un velo d'incubo quel che rimaneva dei corpi che formavano la struttura portante della creatura.
Il mostro si avvicinava, inesorabile. La tentazione della fuga si mescolava alla voglia di distruggere, la fame di spazio e luce si confondeva con le istruzioni ricevute. Uomini e creatura si confrontarono muti, quasi a riflettere le rispettive incertezze. Durò un attimo, poi l'istinto di sopravvivenza uccise ogni razionalità.

L'uovo che non era un uovo riposava sotto le macerie. Nero, corrugato, sazio. Certo della raggiunta pace, in attesa di tempi migliori.

venerdì 22 luglio 2011

Capitolo 14 - L'odore della fioritura

Un'altra rampa di scale.
Era la terza o forse la quarta.
Da fuori, sullo sfondo del cielo ingombro di nuvole grigie, la casa non gli era parsa poi così alta.
Ma non aveva avuto più di qualche secondo per guardarla. Il capitano aveva ordinato subito di «penetrare nel fabbricato» alla ricerca di «eventuali sopravvissuti».
Erano entrati, una cinquantina di individui del Reparto Mobile in divisa blu, elmetto, parastinchi, giubbotto antiproiettile e beretta 92.
La casa era in condizioni pietose, corridoi ingombri di rottami indefiniti, stanza buie che sapevano di marcio, soffitti alti e inscuriti dall'umidità. E muffe, ovunque.
Si separarono in sei gruppi di 7-8 agenti ciascuno. Un primo gruppo scomparve in un corridoio laterale, un altro puntò al retro della villa. Loro e altri gruppi vennero spediti ai piani superiori. Il suo gruppo, comandato dal sovrintendente Longoni, aveva il compito di salire fino all'ultimo piano.
Giunse al pianerottolo. Fradicio di sudore come i suoi compagni e leggermente perplesso.
Longoni battè un piede sul pavimento rovinato e macchiato di muffa. – Cazzo, ma questo non è l'ultimo piano. – Si voltò e rovesciò la testa all'indietro per quanto la bardatura sulla nuca gli permetteva, – C'è ancora un piano, direi. Almeno un piano. – La poca luce arrivava al pianerottolo da alcune finestre con gli scuri sfondati. Senza rendersene conto i militari si erano raccolti in gruppo, le pistole sollevate o puntate verso il buio. Un buio curioso, che aveva qualcosa di solido.
– Potremmo cominciare a dare un'occhiata qui. – Propose uno dei militari, uno appena arrivato da Livorno di nome Bontoli o Tontoli. – Finito questo piano possiamo passare a quello sopra.
– Certo. Ma... – Longoni esitò per un attimo, poi decise di corsa, come se qualcuno gli puntasse una pistola alla nuca, – Meglio dividerci. Due salgono su, gli altri con me, sul piano.
Luciano fu tra i prescelti per il piano superiore. Lui e Bontoli.
– Attenzione, ragazzi. La scala è molto erta. Non fate le corse e non fate gli eroi. Qualsiasi problema... – ???Indicò il ricetrasmettitore alla cintura, – chiamate. Chiaro?
– Tutto chiaro. – Approvò lui, – Andiamo.

,,,

– Come fai di nome, tu? – Chiese al livornese, mentre salivano – qui è meglio chiamarsi per nome.
– Lido. E tu?
– Luciano. – Ridacchiò, – Lido è proprio un nome buffo.
L'altro si strinse nelle spalle, – Basta farci l'abitudine.
Non avrebbe saputo dire perché, ma non fu troppo sorpreso quando, arrivati al pianerottolo, videro sopra di loro un'altra rampa di scale. Lido invece ne fu impressionato, – Cristo santo, ma... – scese tre o quattro gradini, – ma si vede anche da qui! Come ha fatto il capo...
– Torna su. Non se ne sarà accorto.
Ritornò sul pianerottolo scuotendo il capo, – No, che cazzo. Non c'era un altro piano. Non c'era.
– Calmo. Li guarderemo tutti e due. – «E tutti gli altri infiniti piani dopo questo», gli venne spontaneo di pensare, curiosamente quasi divertito.
Penetrarono nel corridoio immerso nell'oscurità. C'era qualcosa per terra, ma non perdettero tempo a cercare di capire di cosa si trattasse. C'era un forte odore, nell'aria, qualcosa che ricordava il fondo bruciato e bagnato di una pentola di polenta. Un odore umido, freddo.
Luciano entrò nella prima stanza, – Libero! – urlò.
Lido entro nella stanza di fronte, – Libero!
Tre o quattro volte ripeté quella formula, sempre meno convinto. A che diavolo serviva? E se anche ci fosse stato qualcuno nelle stanze? A chi l'avrebbe detto, lui? A Lido?
Si fermò per un attimo, appoggiato alla cornice di una porta.
Frammenti di luce baluginavano oltre le finestre. Una luminosità grigia, inerte.
Dal fondo del corridoio, buio come una vecchia cantina, veniva un rumore sordo, una vibrazione bassa e quasi inafferrabile. Cercò di guardare meglio. Ebbe la sensazione che i profili dei muri oscillassero, si muovessero, respirassero. Sollevò la visiera e si strofinò gli occhi. Immobilità fredda e grigia, ma instabile, incerta. Quasi che la vecchia casa avesse trattenuto il fiato. Come per giocare.
Che idea idiota.
Scosse la testa e si voltò.
Alle sue spalle, a pochi metri da lui, un muro.
Un brivido lento, come il ricordo di un vecchio incubo. La sensazione di non riuscire a muoversi, di sprofondare senza fatica e senza rumore.
Si irrigidì e fece quattro passi. Il muro era solido, immobile, come se si trovasse lì da un secolo o quasi.
– Lido! Liiido! Liiiiidoooo! - Urlò.
La voce gli rimbombava in testa, come quando aveva il raffreddore.
Si voltò ancora.
La porta alla quale si era appoggiato era scomparsa, divorata da un muro.
Di riflesso estrasse la beretta e sparò tre colpi. Si aprirono fori oscuri e profondi, come ferite a un corpo vivente.
– Che cazzo sei? – urlò, – Che... cazzo... sei?
Sottolineò ogni parola con la detonazione della sua beretta.
L'odore era diventato più violento, quasi intollerabile.
I muri vibravano, si muovevano lentamente, si avvicinavano.
– Fermi, bastardi. – sparava e gridava, – vi ho visto... non crediate che...
Il fondo del corridoio era lontano da lui, molto lontano. Sollevò gli anfibi con inattesa lentezza e cercò di mettersi a correre.
Scivolava, raschiava, si aggrappava inutilmente a un pavimento morbido, cedevole, vischioso. Una slow motion, con lui come protagonista. Aveva una paura fottuta e aveva voglia di ridere, di ridere a crepapelle. Quella casa maledetta lo stava ingoiando, digerendo e a lui veniva da ridere. Cessò di sforzarsi. Si sedette per terra. Sorrideva, la mente perduta in remoti ricordi che non sapeva di aver dimenticato..
Le porte scomparivano una dopo l'altra e la luce poco per volta svaniva.
Il suo corpo si scioglieva lentamente, come cera sulla stufa.
L'odore adesso non era più intollerabile.
Era diventato parte di lui.
ERA lui.
L'odore della fioritura.
L'odore della rinascita.
Le quattro pareti si chiusero lentamente, delicatamente su di lui.
Amandolo fino a consumarlo.

Shlomo si era stretto nelle spalle.
Sarebbe stato tutto inutile, lo sapeva.
Conosceva ben poco le liturgie e la catena di comando delle tante polizie italiane, ma sapeva che a un ordine superiore c'era poco da opporre e nulla da eccepire.
Gli stupidi sono uguali, ovunque e in ogni tempo.
Santonastaso aveva resistito più a lungo.
Era rimasto attaccato al telefono per una buona mezz'ora ma tutto quello che era riuscìto a ottenere fu una lunga e inutile discussione con un sottopiffero del ministro. «Ma io le dico che... ma no, non dico certo che non me ne importa nulla... ma se me lo passa potrei spiegargli che... non c'entra nulla... non si tratta di terroristi, come glielo devo dire?... Posso fare ricorso? Ma mi prende in giro?... mi può passare il ministro? No? Eccheccazzo, ma io sono qui per conto dell'AISA, lo sa che cos'è? Ma almeno il ministro lo sa che cos'è?
Chiuse il telefono e se lo cacciò in tasca.
– Niente da fare. Sono in arrivo. Un reparto mobile. Ordine diretto del ministro degli Interni
Shlomo non gli rispose subito. Respirò lentamente e indicò la villa. – Deve nutrirsi, adesso. Deve crescere. Poi toccherà a noi.
– Sono uno dei reparti di Genova, credo. Un reparto scelto. Ma sì, ma che cosa te lo dico a fare, tanto non sai di che cosa parlo.
Ebbe l'impressione che Shlomo, nascosto dietro l'ala del cappuccio, sorridesse, – Hai ragione. Di Genova e di reparti mobili della polizia non so nulla. Completamente nulla.

lunedì 18 luglio 2011

IMPORTANTE - Comunicazione di servizo


Per pressanti impegni extra-narrativi, Sekhemty non potrà postare il proprio contributo nelle prossime ore.

L'Ordine di Battuta viene perciò modificato, e la palla passa a Massimo Citi.
Considerando che si tratta della classica brutta sorpresa, credo nessuno protesterà se a Massimo diamo un paio di giorni extra per riprendersi dallo shock e inventare qualcosa.
Diciamo che sarebbe bello avere il capitolo per il 22.

Intanto, Iguana Jo è invitato a presentarsi ai box per il riscaldamento.

Sekhemty rientrerà quando i suoi guai saranno finiti...

Grazie pe la vostra attenzione.

giovedì 14 luglio 2011

Capitolo 13 - Memoria di Fame


Rosa sognava il Mondo.
Distesa sul pavimento, era una forma pallida che veniva avvolta da filamenti grigi; le cellule del Mondo stavano coprendo la sua carne tratto dopo tratto. La stavano cancellando come i segni lasciati da un'unghia che gratta via lo sporco.
Rosa era morta e sognava il Mondo.

Gaetano non vedeva l'ora di acciuffare i due ragazzini; si era preparato anche un bel discorsetto. Arrivato ad un'intersezione tra i corridoi, si chiese se doveva andare a destra o a sinistra; la luce livida ed il freddo della casa non gli diedero indizi. Si grattò la guancia, confuso.
Forse doveva provare ad andare
a destra, dove c'erano le scale
dopo la seconda porta.
Gaetano si bloccò.
Come faceva a saperlo?


Rosa sognava il Mondo, sognava la sua nascita, al tempo in cui tutte le stelle erano giganti azzurre e le regole erano differenti. Le cose seguivano altri schemi e avevano altre strutture; alcune di quelle antiche regole erano fuori nel cortile: vorticavano attorno al prete, formavano il Segno.
Ma il Mondo era più astuto delle regole.
Come avrebbe fatto altrimenti a nutrirsi?

Gaetano aveva continuato a camminare, con i passi che rimbombavano nel silenzio. Si fermò un istante in una sezione che era sicuro di avere già visto. Svoltando a destra sarebbe entrato nella sala da ballo; forse i ragazzi erano là.
Solo che non ricordava di aver ancora visto nessuna sala da ballo. Eppure sapeva dove fosse, sapeva com'era fatta
c'era anche un grande specchio

e sapeva come arrivarci.
Ancora provava
quella strana sensazione di già visto; non era mai stato in quella parte della villa.
Eppure sapeva dove andare.
Cosa diavolo stava succedendo?


Rosa ricordava il Mondo. Ricordava la Fame, la brama di vita e di carne, ricordava la caccia alle prede, la crescita delle cellule sulla superficie del Mondo; quando le prede erano finite, ci avevano pensato i visitatori da altre stelle a lenire la fame del Mondo.
E il Mondo era cresciuto, aveva inglobato e ingerito, ed era divenuto un unico essere.
Il Mondo era eterno.
Rosa rabbrividì di piacere.

Gaetano si era appoggiato alla parete, ansante. Aveva freddo, un gelo strano che gli si era insinuato nel corpo nonostante il suo respiro non si condensasse; il mal di testa che gli grattava le tempie, e continuava a sentire quella stranissima sensazione di deja vu per villa Gatto-Borghi.
Come se ci fosse nato; no, meglio, come fosse parte
di noi
di lui.
E poi c'era la luce, che aveva assunto una tonalità livida e bluastra, e proveniva da angoli insoliti, che allungavano le ombre e facevano sembrare delle cose come fossero altre.
Forse aveva le allucinazioni.
Forse aveva soltanto
fame.

Non si era reso conto del vuoto allo stomaco fino a qualche secondo prima; sentiva quasi le pareti mucose scivolare l'una sull'altra, in attesa di qualcosa di cui nutrirsi.
Ma prima doveva trovare quei due ragazzini

appetitosi
maledetti.
Fece tre passi, poi barcollò e scivolò lungo la parete a terra.
Il freddo au
mentò d'intensità, divenne un peso metallico che lo schiacciava; lo sentiva provenire da sopra, premere sul collo, sul fianco, su ogni parte esposta.
Gaetano, la testa a ciondoloni sulla spalla, guardò in alto, verso il freddo e verso il soffitto.
Fu un errore.
Dove dovevano esserci travi di legno e stucco, si spalancava l'orbita vuota del cosmo: una volta cieca, nella quale splendevano milioni di stelle azzurre. Un arabesco di luce al centro del quale, nero come una gola aperta, stava
il Mondo.

Gaetano aprì la bocca ed urlò.


Rosa non poteva ricordare la morte del Mondo, ma sapeva che esso era stato distrutto. Qualcosa ne aveva smembrato la carne, spargendo nel cosmo il suo nucleo molle e la crosta dura; increspature di dolore si fecero strada per la sua mente morta.
Ma frammenti del Mondo, ognuno cieco e idiota nella sua piccolezza, erano sopravvissuti; su di essi le cellule del mondo avevano atteso durante strani eoni, dormendo nel gelido vuoto dello spazio, nel freddo che le schiacciava.
Fino a che alcune di quelle cellule erano precipitate su un altro pianeta, e qui avevano trovato finalmente calore e luce, ed erano tornate prima alla Fame, poi alla vita, poi alla coscienza.
A un nome, anche.
Ed ora Stakari-Botri ricordava la propria ascendenza e la propria comunanza con il Mondo.
Gli ultimi rimasugli di Rosa furono divorati dalle cellule del Mondo mentre la sua mente conosceva l'estasi della sicura vittoria. Il Mondo sarebbe tornato ad essere tutto.
E, alla fine, sarebbe stato anche
sazio.

"Ehi, eccolo lì!"
Stefano indicò l'entrata di Villa Gatto-Borghi, quella da cui era uscito un istante prima urlando. Vicino alla porta c'era Gaetano, riverso in condizioni pietose, ricoperto di strani simboli. Gemeva e agitava le braccia.
Accanto a Stefano, Shlomo si irrigidì.
Stefano si girò verso Santonastaso.
"Dobbiamo andare a prenderlo...?" Non ne era del tutto sicuro.
"No." Schlom alzò un braccio con fare deciso. Santo e Stefano lo guardarono; Stefano aprì la bocca per parlare.
"No! Non vi avvicinate." Il monaco aggrottò le sopracciglia. "L'uomo è stato marchiato. Dobbiamo... devo liberarlo, prima, oppure ucciderà tutti quelli che sono dentro la villa."
Stefano espirò, sibilando.
Bruno...
Shlomo strinse i pugni, poi si legò più stretto il saio, e tese davanti a sé il crocefisso macchiato del sangue di Don Simone; appena dietro l'entrata, Gaetano gemette ed allungò una mano verso il prete con fare disperato.
Shlomo cercò di tenere a bada il sangue che gli martellava nelle tempie, il sudore che gli scorreva sulla fronte. Si girò verso Santonastaso, annuendo due volte.
Poi il monaco, mormorando parole in arabo ed ebraico, respirando forte dal naso, mosse i primi passi verso la soglia di villa Gatto-Borghi.
Poco più avanti, Gaetano provò un brivido di piacere nel vedere il prete che si avvicinava.
Non era più tempo di illusioni, allucinazioni e proiezioni mentali.
Mugolò ancora, per invogliarle il monaco ad avanzare, mentre la sua mente esultava in orgasmo nella comunanza con Stakari-Botri e le cellule del Mondo.
Il Mondo sarebbe tornato ad essere tutto!
E alla fine sarebbe stato anche sazio.

lunedì 11 luglio 2011

Capitolo 12 - L'ordine naturale delle cose




Rumori impercettibili, comuni a tutte le case di una certa età. È il linguaggio segreto dei vecchi mobili e dei muri in perenne stato di assestamento.
Solo che in questo caso era diverso.
Tra i cigolii del legno e il lievissimo ticchettio di cose minuscole che si muovevano nelle pareti, la Casa aveva emesso miriadi di invisibili spore. Qualcuno lo avrebbe definito un meccanismo di autodifesa, altri una strategia di caccia. Si trattava di entrambe le cose. Peccato solo che la natura della Casa fosse ignota a tutti. O quasi.
Sentiva i piccoli umani - così fragili e approssimativi nelle loro limitazioni biologiche - che zampettavano nei corridoi e nelle stanze. Qualcuno era già morto, fatto a pezzi con disarmante facilità dalle creature-spore emesse dall'edificio. Organismi microscopici in grado di pescare nelle primitive paure del cervello umano e di dar loro forma a livello paraelementale. Ma anche cose più grosse e tangibili.
Non pochi sciocchi che avevano studiato Villa Gatto-Borghi nel corso dei decenni si erano concessi spiegazioni confuse tra scienza e spiritualità. Paroloni senza senso compiuto che avevavo la sola funzione di arginare il terrore senza nome rappresentato dall'edificio. Molti erano morti. Altri avevano lasciato perdere. Non pochi erano impazziti. Alcuni di loro erano tornati. Ora.
Verità che sarebbero comunque sfuggite ancora una volta. Le capacità umane erano troppo limitate per comprendere la vera natura della Cosa-Casa. Stakari-Botri, come l'avevano ribattezzato i tripolitani, prima che gli italiani invadessero le loro terre, strappando tutto ciò che avevavo di prezioso. La bizzarria della sorte era che quel nome se l'era inventato un padre missionario, poi ucciso “per sbaglio” perché si era schierato in difesa degli arabi. Alla Cosa era piaciuto e ora pensava a se stesso in quei termini, anche se era un nome senza vero Potere.

Ai tempi la Cosa-Casa proliferava presso un minuscolo villaggio arabo dello Sciara Sciat. A dire il vero non era ancora una “casa”, bensì una sorta di obelisco fungiforme temuto e venerato dagli zotici della regione. Aveva promesso protezione dagli invasori latini ai suoi più intimi adoratori, impegno mantenuto però solo per pochi giorni, quando aveva capito che gli italiani avrebbero comunque vinto quella stupida e inutile guerra. Al che Stakari-Botri anelava già la ricca Europa, assaporandone la ricchezza di carni e menti in cui avrebbe potuto sporificare.
Il Fato era dalla sua parte, perché tra gli ufficiali italiani c'era un elemento che costituiva per lui un naturale contatto, il tenente Guidobaldo Verzeni, rampollo di una famiglia in cui più di un membro si dilettava di arti che gli stupidi umani definivano “oscure”. Era stata forse una naturale affinità a guidare il Verzeni fino alla polla in cui il monolite spugnoso attendeva il suo nuovo, inconsapevole servo. Poche spore invisibili avevano permesso al tenentino di entrare in una sorte di trance allucinatoria. Tra i cadaveri ancora freschi degli arabi e dei turchi morti in battaglia pochi metri più in là, molti dei quali orribilmente invasi da muffe scure e ripugnanti, Verzeni aveva trovato il suo Dio. Sette giorni più tardi un mercantile pagato sottobanco dal ricco ufficiale trasportava l'obelisco, sigillato in una cassa, a villa Gatto-Borghi.

La casa, che ora era parte integrante di Stakari-Botri, era un monumento all'idiozia umana, infetta dagli esperimenti bislacchi fatti dagli idioti che giocavano con fuoco senza conoscerne il pericolo. Il perfetto brodo di coltura per la creatura, precipitata su quel pianeta molti secoli fa. Ai tempi era ancora una spora, portata dal vento e dall'autocoscienza limitata. Col tempo si era plasmata, crescendo di massa e di potenza. Gli echi del mondo dei suoi simili, distrutto eoni orsono da un evento cosmico, vivevano nel suo retaggio mnemonico. Ricrearlo lì, su quella palla fangosa abitata da forme di vita primitive, era un progetto più attuabile, man mano che trascorrevano gli anni. La villa, la villa era la sua meta perfetta. Infatti Stakari-Botri aveva proliferato, spargendo spore e plasmando menti, attingendo alle superstizioni religiose comuni tra gli umani. I Verzeni si erano dimostrati dei perfetti padroni di casa, anche coloro che, a differenza di Guidobaldo, non avevano alcun interesse nello studio delle cose occulte.

Un rumore interruppe parte del flusso dei pensieri della Cosa-Casa. Le spore invisibili della creatura sondavano la villa di secondo in secondo, manifestandosi a secondo delle esigenze nelle forme più opportune. Gli intrusi aumentavano di numero. In circostanze normali sarebbe stato solo un bene, un'occasione perfetta per aumentare il brodo di coltura. Del resto la creatura stessa attirava prede, di tanto in tanto, per nutrirsi. Ma tra questi nuovi visitatori percepiva presenze che in qualche modo temeva. C'erano i maledetti impiccioni che studiavano la villa da anni. Coloro che avevano limitato la sua sporificazione con i rituali giusti, col Segno, con la Geometria delle Cose e con la scienza.
Percepì la presenza del monaco, dell'Uomo di Legge monco e quella del moribondo, che potenzialmente era colui che più rappresentava un problema. Erano venuti lì per sfidarlo? Possibile, dopo aver dimostrato loro la sua virtuale invulnaribilità? Lo avevano circoscritto nei limiti della casa già anni prima, e questo per loro era un incredibile successo. Perché tornare per tentare l'impossibile? Una parte della coscienza di Stakari-Botri capì che c'erano di mezzo quelle strane cose chiamate relazioni umane. Rapporti parentali che spingevano quelle scimmie a correre rischi immani per salvare i loro consanguinei. Qualcuno di sbagliato era entrato nella villa e gli altri stupidi bipedi erano accorsi a salvarlo.
Eppure un sussulto tanto raro quanto imprevisto della sua massa primaria, nascosta nel cuore della casa, gli fece capire che aveva paura. Spinti dalla feroce autoconservazione della prole e armati delle conoscenze proibite che il monaco studiava da anni, potevano forse causargli seri danni.
Distruggerlo?
Il pensiero lo turbò. Per eliminarlo del tutto avrebbero dovuto ricorrere ad armi di cui senz'altro non disponevano ancora.
O forse sì?
Quel dubbio minava la solida, imperturbabile determinazione della Cosa-Casa. Una vera e propria novità per la creatura fungiforme, che conosceva la paura solo in qualità di riflesso della mente scimmiesca degli umani.
Era dunque giunto il momento per porre fine a quella storia. Non era più il tempo di giocare con le spore allucinatorie e con le micotossine di media complessità a cui aveva dato vita finora. I suoi nemici più potenti si preparavano a entrare. Avrebbero trovato la morte. Si sarebbero uniti al brodo di coltura. Forse ne avrebbe lasciato vivo qualcuno, amputando le sue mani, di modo che non potesse più attingere alla Geometria delle Cose per tracciare o costruire altri Segni. Lo aveva già fatto con l'Uomo di Legge. Doveva essere un monito. Evidentemente non era bastato.
Tuttavia la Cosa-Casa si sentiva pronta. Distruggendo il monaco e il moribondo avrebbe distrutto anche il vincolo che lo confinava alla villa. Il che voleva dire tornare a sporificare il lungo e in largo.
Il tempo era maturo.
Stakari-Botri iniziò a emettere micotossine e a plasmarle. Presto, molto presto avrebbe ottenuto una vittoria che stava nell'ordine naturale del creato. Il più forte sconfigge sempre il più debole. Di certo lui non avrebbe concesso eccezioni.

giovedì 7 luglio 2011

Capitolo 11-Daniele


La situazione dentro la villa stava peggiorando,Santonastaso lo avvertiva dalle fitte che avevano iniziato a propagarsi per il suo corpo. Pensando a quello che Shlomo aveva appena detto stava per parlare quando un uomo gli si avvicinò e gli sussurrò qualcosa all'orecchio .Poi si volto verso gli altri e disse:
"Per il momento nessuno farà niente!Prima devo parlare con qualcuno,qualcuno che potrebbe avere delle informazioni utili."
Rivolto al monaco:"Shlomo assicurati che nessuno faccia follie,Daniele è arrivato e potrebbe avere qualcosa"
Santonastaso si diresse verso il furgone. Dentro lo aspettava un uomo sulla trentina,Daniele un recente acquisto del gruppo .Daniele era un ricercatore e come amava farsi chiamare un medico delle case malate. Ogni volta che si occupavano di un caso Daniele ne studiava la storia,individuava elementi utili a sciogliere la matassa. Formulava una propria diagnosi in pratica.
"Come è andata Daniele?"chiese Santonastaso"Si è di nuovo opposto?"
"Non questa volta,rispetto a venti anni fa si è mostrato ansioso di cooperare e mi ha dato tutta la documentazione esistente"
Stavano parlando di Vincenzo Verzeni attuale proprietario di Villa Gatto-Borghi,che come ricordava Santonastaso venti anni prima si era reso irreperibile. Inoltre aveva applicato un autentico veto su ogni documento che riguardava la villa o che la menzionasse. Tirare fuori quei due ragazzi all'epoca senza nemmeno una pianta dell'edificio fu un miracolo.
Santonastaso trovo sospetto il suo cambio di atteggiamento,ma per ora non era la priorità quella era tirare fuori chi era ancora intrappolato nella villa ammesso che ci fosse ancora qualcuno vivo.
"Va bene Daniele inizia a raccontarmi tutto". E Daniele inizio a parlare...
Villa Gatto-Borghi non era stata costruita dalla famiglia Verzeni,ma venne acquistata nel 1825 da Luigi Verzeni,ricco latifondista come regalo per la moglie.(Il nome della Villa deriva dal di lei cognome)L'identità del precedente proprietario della villa rimane un mistero. I primi anni trascorsi dai Verzeni nella villa furono tranquilli. Fino a quando una delle serve,una ragazzona robusta si ammalò ed inizio a deperire. La ragazza si lamentava che la notte qualcosa si accovacciava sul suo petto e le succhiava il respiro. I Verzeni non le credettero e temendo che diffondesse strane voci la licenziarono. Mori giorni dopo talmente deperita da sembrare una vecchia. Da allora la villa fu teatro di episodi bizzarri oggetti che scomparivano,rumori che a tarda notte svegliavano gli inquilini. In molti giurarono di vedere qualcosa strisciare nell'ombra. Grazie ai loro soldi i Verzeni misero a tacere ogni voce e pettegolezzo,ma neanche i soldi di tutto il mondo avrebbero potuto impedire nuovi sviluppi. Dopo quasi mezzo secolo una strana muffa aveva iniziato a invadere lentamente l'abitazione e agli inizi del novecento negli anni venti molte stanze furono chiuse perchè impraticabili. Per i Verzeni quella villa era ormai un incubo che affossava le loro risorse. Ma spinti dal loro orgoglio resistettero,perlomeno fino al '36. Nell’Agosto del 1936 Marco Verzeni diede un ricevimento a cui parteciparono anche alcuni nomi in vista del fascismo cui Marco sperava di avvicinarsi. Al culmine della festa però Cecilia la sorella di Marco lamentò la scomparsa di suo figlio e di altri due bambini,figli di conoscenti. Non vennero mai trovati i corpi. Screditati e feriti nell'orgoglio i Verzeni abbandonarono la villa pur mantenendone la proprietà. Nel Marzo del '44 alcuni soldati tedeschi la scelsero come base operativa durante l'occupazione,nonostante il parere contrario delle autorità locali. Dopo meno di una settimana si ammalarono e morirono tutti. I loro corpi furono riportati in fretta in Germania,in tutta segretezza. Ma da alcune confessioni di uno dei medici che effettuarono le autopsie sembra che le loro viscere fossero colonizzate da un fungo che si era espanso e nutrito come un tumore nei loro corpi. Villa Gatto-Borghi venne definitivamente chiusa e abbandonata. Fino all'incidente di venti anni fa...
Dopo aver ascoltato il racconto di Daniele Santonastaso disse"Quello che mi hai raccontato è interessante Daniele,ma non ci è molto utile a meno che non ci sia dell'altro..."
“Si,ho preferito tenere questo particolare per ultimo Santonastaso” disse Daniele.
“Secondo alcuni estratti del diario di Luigi Verzeni,nelle cantine era situato un altare sormontato da una specie di croce nera,dico una specie perché in base a quello che ha scritto Luigi la forma era simile ma non del tutto uguale”
“Una “croce” nera?”riflettè Santonastaso “Questa getta una luce inquietante sul precedente proprietario di Villa Gatto-Borghi”
“In effetti si,comunque Luigi temendo che si trattasse di un segno di pratiche stregonesche la fece rimuovere,trovandosi costretto a chiudere l’ingresso alle cantine perché dopo la rimozione dell’altare l’atmosfera era diventata malsana”
“Quell’altare doveva servire a sigillare o controllare qualcosa Santonastaso e Luigi rimuovendolo ha dato inizio all’infestazione e a tutto il resto”
“Lo penso anch’io Daniele,ti ringrazio per il lavoro che hai svolto. Ora sarà meglio che riferisca tutto a Shlomo”
Dopo aver ascoltato la storia di Villa Gatto-Borghi e della rimozione dell’altare Shlomo disse:”Vedo un'unica soluzione Santonastaso,effettuare un esorcismo nelle cantine dove sorgeva l’altare. La croce di Simone macchiata dal sangue del suo sacrificio potrà fungere da nuovo sigillo”
“Sei sicuro Shlomo?Non pensi che sia troppo rischioso?” ribattè Santonastaso.
“Ovvio Santo,sarà molto pericoloso,ma dobbiamo tentare”poi dopo aver fissato la villa disse “La presenza che occupa Villa Gatto-Borghi sta crescendo,lo percepisco. Vuole uscire ed espandersi,se non agiamo sarà troppo tardi”
“Che Dio ci aiuti” esclamò Santonastaso.



lunedì 4 luglio 2011

Capitolo 10 - Padre, figlio e...

Stefano si bloccò all'improvviso in mezzo al corridoio, come attraversato da una fortissima scossa elettrostatica. Dopo la scomparsa di Rosa si erano diretti verso l'ala Ovest seguendo delle pozze di sangue. Passato il primo attimo di smarrimento, ricollegò la spiacevole ma familiare sensazione ai ricordi del passato.
" Il Segno – pensò - dunque anche il vecchio monaco è qui, Cristo santo"
Santini e Gaetano si fermarono subito dietro di lui in mezzo al corridoio, il carabiniere guardandosi intorno e il vigile appiattendosi contro il muro. All'inizio Santini aveva cercato di fermare il delirio di quella specie di Rambo deviato, che balzava da un lato all'altro del corridoio, riparandosi dietro ogni mobile marcio e parete ammuffita, rotolando sul pavimento di assi sconnesse con l'unico risultato di fare un gran fracasso e scorticarsi la nuca; alla fine aveva rinunciato, preoccupato più per il suo collega e la vigilessa.
"Ha visto qualcosa, signor Morganti? "
Stefano si voltò pallido verso gli altri due, ricordandosi dell'effetto che il segno aveva sulla struttura stessa della casa.
"Dovete uscire dalla casa, ORA! - urlò prendendoli per le spalle e tornando indietro lungo il corridoio - hanno posto il segno, significa che il monaco è qui, e la casa sicuramente sta per reagire, bisogna fare in fretta!"
" Si può sapere che cazzo stai dicendo- sbottò Gaetano divincolandosi dalla stretta- ti sei drogato o cosa? Dove cazzo lo vedi un cazzo di prete qui?"
“E' un monaco, non un prete. Ed era nella squadra che ci ha tirato fuori di qui la prima volta. Sbrigatevi ho detto!” continuò trascinando Santini per un braccio.
Il carabiniere si fermò accanto al vigile “Per quanto mi costi ammetterlo, devo dare ragione al mio collega- disse accentuando il sarcasmo sull'ultima parola- ci vuole dire che sta succedendo signor Morganti? “ Fu in quel preciso istante che il corridoio davanti ai tre si allungò all'infinito. Approfittando dello stupore degli altri due, Stefano li riprese per il braccio e ricominciò a correre.

Enzo Bonabitacola non era certo un atleta. Erano trascorsi molti anni dall'ultima volta che aveva corso la maratona del liceo, anni in cui gli agi a cui era abituato avevano allargato il girovita ed accorciato il fiato. Ma con suo figlio tra le braccia, l'odore della carne ancora fumante misto al sapore salato delle lacrime, corse come tanti anni prima, attraversando tutto il reparto, l'accettazione, fino a posare delicatamente il corpo martoriato sul sedile anteriore della sua BMW. Gli occhi di Simone si aprirono con fatica ancora una volta, due pozze bianche e blu su un corpo color carbone.
“Portami lì, papa', portami lì”.
Tra l'ospedale e Villa Gatto-Borghi c'erano appena una decina di chilometri, ma Enzo aveva l'impressione di aver guidato per delle ore, con la paura di non riuscire a realizzare neanche l'ultimo desiderio di suo figlio, di non riuscire a fargli capire, dopo anni di discussioni e lotte, che lui credeva. Che lui GLI credeva.
Davanti alla villa c'era uno spiegamento considerevole di polizia, carabinieri, esercito ed altri corpi che non riuscì immediatamente ad identificare. Quando venne fermato al posto di blocco, gli bastò fare il nome di suo figlio per essere scortato immediatamente davanti all'ingresso della villa.
Santonastaso e Shlomo erano in piedi davanti al Segno, una pala d'altare proveniente dal monastero medievale greco della Gran Meteora, ma che era più antico di diversi secoli. La processione di angeli neri su sfondo oro che portava in mano il triangolo ardente contenente l'Occhio, sembrava quasi prendere vita.
Intenti ad osservare la villa ed I suoi mutamenti, non si accorsero fino all'ultimo del gruppetto di persone che correva verso di loro, guidato da Leonardi. Quando si voltarono, si trovarono di fronte un padre addolorato e un figlio morente.

Stefano era riuscito a trascinare I due militari fino quasi all'entrata della casa, in una corsa psichedelica contro il tempo e contro la fisica. Le pareti attorno a loro si erano piegate, quasi come per schiacciarli, per poi fluttuare come acqua increspata da un vento invisibile. Scendendo le scale era parso loro di salire e di sentire risuonare ovunque risate di bambini. Le luci si accendevano e si spegnevano, si sentivano telefoni suonare ovunque e passi e rumore di sedie e di piatti nelle stanze vicine.
Santini aveva tentato più volte di fermarsi ma Stefano, trascinato dal proprio istinto di sopravvivenza, era riuscito a portarli fino al grande atrio. Ora, ansanti, fissavano senza dire niente la porta d'ingresso. La cacofonia attorno a loro era appena finita, quando sentirono uno zampettio strascicato provenire dalla stanza alla loro sinistra.
Il levriero caracollò fuori dalla stanza tenendo stretta tra I denti la testa di Eva, il volto fissato in un ultima espressione di stupore e dolore. Una voce infantile proveniente dall'altra stanza ruppe il silenzio “Qui Bell, da bravo, riporta!”
Qualcosa dentro Stefano si spezzò definitivamente. Emettendo un verso a metà fra un urlo e un conato di vomito, fuori di se', uscì di corsa dalla casa.

Santonastaso riconobbe Simone tra le braccia di suo padre e gli sembrò che un blocco di cemento gli cadesse tra le spalle. Tutti quegli anni spesi a studiare, ad addestrare quel giovane, quel ragazzo che sentiva davvero la chiamata, tutto in vista di quel momento ed ora...
Shlomo si inginocchiò accanto al giovane prete, che il padre teneva tra le braccia.
“Shalom, Simone. Aspettavamo solo te - Il sussurro della sua voce sembrò incrinarsi- ma pare che la Gehenna abbia richiesto il suo pedaggio.”
Simone chiamò a raccolta tutte le forze che gli rimanevano “Così pare... maestro. Ma non... potevo lasciare che... Don Alberto la...affrontasse da solo.”
E con un accenno di sorriso su ciò che restava del suo volto, Simone Bonabitacola chiuse gli occhi per l'ultima volta.
Dopo un momento di silenzio, Ezio si rivolse agli astanti.
“Mio figlio mi ha chiesto di portarlo qui. Questa casa e ciò che contiene erano la sua missione e la sua vita. Ditemi cosa devo fare.”
“Siamo addolorati per la sua perdita, dottor Bonabitacola, davvero - rispose Santonastaso – ma non c'è niente che possa fare lei qui adesso”. Non so neanche se c'è qualcosa che possiamo fare noi adesso. “ La cosa migliore per ora è che si faccia indietro e”
La frase venne interrotta dal rumore di alcune persone che,urlando, scappavano a rotta di collo dalla casa. A metà del viale d'ingresso furono bloccati dagli agenti dei servizi e portati immediatamente davanti a Santonastaso.
“Stefano Morganti??? Che diavolo ci fa lei nella casa, di nuovo?”
Stefano, riconoscendo nel suo delirio Santonastaso e il monaco riprese un poco il controllo di se'.
“Sapevo che eravate voi, dovevate essere voi! Grazie a Dio! Presto c'è mio figlio lì dentro, noi tre siamo usciti appena ho sentito il Segno!”
“Si calmi Morganti, respiri. Quante persone ci sono in quella maledetta casa?”
“Oltre a me e questi due c'era un'altra vigilessa e ci deve essere mio figlio e c'era Eva e non so credo che mio figlio sia dentro con qualcuno dei suoi amici e”
Santini, fino a quel momento rimasto muto e tremante si riscosse “Dov'è il coglione?”

Solo in mezzo alla sala, Gaetano si grattava la testa. Non capiva perché da qualche minuto provasse quello strano prurito e soprattutto non capiva perché quei due erano scappati alla vista di un cane con una palla sgonfia in bocca. Certa gente è proprio senza palle – pensò- al minimo rumore se la danno a gambe. Pff. Non sarebbe stato certo qualche scricchiolio a spaventarlo, lui che aveva superato tutti I corsi di sopravvivenza a cui aveva partecipato. Si guardò intorno, chiedendosi perché era venuto lì. Aveva ricevuto una chiamata, si questo se lo ricordava. E c'erano dei ragazzini in quella casa, si, il padre li stava cercando. Un'idea lo colpì. Violazione di proprietà privata, ecco cosa stavano facendo quei ragazzini! E la giustizia era sempre troppo indulgente coi ragazzini. Lui odiava l'indulgenza e odiava I ragazzini. Ecco cos'avrebbe fatto, avrebbe portato la giustizia in quella casa. Con una nuova luce negli occhi si diresse alla loro ricerca verso l'ala est.
Le spore sulla sua nuca vibrarono di piacere.

All'esterno della casa, Stefano aveva ricominciato ad urlare. Non solo non avevano ancora mandato una squadra di recupero, non avevano intenzione di farlo rientrare.
“LO CAPISCE CHE C'E' MIO FIGLIO LI DENTRO?!?!”
“Stefano ascolti, stiamo cercando di capire cosa fare, per favore, stia indietro e ci lasci lavorare”
“Lasci entrare me allora – li interruppe Enzo- voglio aiutare. E voglio vedere coi miei occhi quello che c'è lì dentro. E lei signore, se suo figlio è lì dentro, resti qui di modo che quando uscirà trovi suo padre ad accoglierlo. Ma io devo entrare!!!”
Santonastaso scosse la testa e si passò la mano sugli occhi sempre più stanchi “Signor Bonabitacola, lei non ha idea di cosa”
“Suo figlio è stato un buon amico e un buon allievo – il sussurro profondo di Shlomo azzittì I due uomini - non butti via così il suo lavoro."
Il monaco si chinò sul corpo di don Simone e con tenera delicatezza liberò dalla stretta delle dita ciò che restava della croce d'argento. “La croce bagnata dal sangue di un sacrificio. Le dice niente?”