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martedì 30 agosto 2011

Capitolo 20 - Sangue, poltiglia e lacrime

Terrore.
Disperazione.
Frenesia.
Senso d'impotenza.
L'elenco avrebbe potuto continuare a lungo ma Stefano Morganti - strano ma vero - non era dell'umore. Anziché desiderare di affogare i pensieri nell'alcool, la sua mente era rimasta sorprendentemente lucida. Abbastanza perché nel caos scatenato dalla metamorfosi della Casa, lui si accorgesse dell'atteggiamento vistosamente calmo di Shlomo, come fosse stato in attesa. E i comportamenti del monaco, incomprensibili ma misurati, quasi fossero destinati a un inevitabile successo, erano stati l'unico appiglio razionale che gli avevano permesso di rimanere sano di mente l'altra volta.

Quindi il rombo scoppiettante del motore del taxi. Lo storpio che scendeva. Shlomo che lo accoglieva con naturalezza. Sanno cosa fare. Stefano trovò immediatamente Santonastaso. Spiccava nella folla per corporatura, divisa e le vistose protesi.

"Potete... riportarli indietro, non è vero?"
Nello sguardo dell'uomo dei servizi segreti Stefano lesse un fastidio trattenuto. Se non lo aveva cacciato via era solo perché provava pietà per lui. Avere un figlio intrappolato nello stesso inferno che già ha cercato di inghiottirti farebbe perdere la calma anche a te, bastardo.
"Forse. O forse è troppo tardi".
"Tiraste fuori Claudio, l'altra volta..."
Santonastaso zittì Stefano. Entrambi ricordavano perfettamente il momento terribile in cui Claudio era stato tirato fuori dalla casa. Non aveva più nulla di umano ed era morto entro poche ore.

"Lo ha trovato".
Stanno davvero parlando di Bruno?
Un brandello di ragione tratteneva Stefano dalla gioia. Eppure non aveva mai smesso di sperare. Un capannello di sopravvissuti si era raccolto attorno allo storpio - Hans - sdraiato a terra in preda a una sorta di estasi panica. Con i soliti gesti misurati ma energici Shlomo brandiva un crocefisso incrostato di sangue umano. Tutti fissavano i movimenti del monaco in direzione della Cosa immensa e incurante di loro, ma Stefano si ritrovò a notare nel capannello un uomo anziano e robusto, la cui maggiore attenzione sembrava rivolta al crocefisso.
"O Signore, fa che la morte di Simone non sia stata vana..." mormorava.

Shlomo continuava a salmodiare a bassa voce e niente sembrava destinato a mutare. Poi quasi dal nulla un bozzolo nerastro precipitò dal cielo - o meglio, dalla creatura - andando a schiantarsi sul terreno a pochi passi da Stefano.
"Il figlio raggiunge il padre" sogghignò Shlomo, avvicinandosi.
Figlio? Padre?
Afferrato da una remota speranza Stefano si avventò sul bozzolo e cominciò a tirare e strappare. Incontrò poca resistenza nel portare via strati di sostanza molliccia e maleodorante, scavò, afferrò e si morse la lingua mentre il fiato in fondo ai suoi polmoni sembrava congelarsi.
Bruno era lì. Liberato dal bozzolo tossì, vomitò sostanze putride e infine riconobbe il volto del padre, che si affrettò a sollevarlo tra le braccia, in un estremo gesto di protezione.

"Non gli piacerà quello che deve fare ora" commentò Santonastaso a bassa voce rivolto al monaco. Shlomo era imperscrutabile. La posta in gioco era troppo alta per dare spazio a compassione.
"Così è scritto. Un crocefisso bagnato del sangue di un sacrificio ha aperto un varco. Un crocefisso bagnato dal sangue del sacrificio di un altro figlio potrà riportare l'Ordine. Ma l'energia sarà sufficiente solo se a uccidere il Figlio sarà stato il Padre".
Ai suoi piedi, l'Idolo dei Garamanti attendeva l'inevitabile destino.

giovedì 25 agosto 2011

Capitolo 19 - Il Catalizzatore

I militari schierati davanti a quel che rimaneva di Villa Gatto-Borghi rimasero interdetti davanti alla visione della Cosa solo per pochi minuti. Alcuni di loro erano stati in guerra, avevano visto compagni cadere, civili dilaniati e fusi e l'orrore di un conflitto in ogni sua forma. Non erano mai visto niente di quella portata, ma le forme di orrore a certi livelli diventano indistinguibili e ricadono tutti nella stessa categoria.
Aprirono il fuoco senza attendere che qualcuno glielo ordinasse. La voce dei fucili d'assalto Beretta ARX-160 si unì al ritmo della mitragliatrice leggera M249 e convogliò in un unica sinfonia verso il bersaglio. I proiettili non distrussero, non colpirono, non recisero, furono semplicemente inglobati nella struttura della Cosa che parve crescere a ogni colpo ricevuto.
Gli uomini allora decisero di passare alle granate in dotazione nei fucili Beretta. Gli esplosivi disegnarono traiettorie ellittiche ed entrarono in contatto con il bersaglio senza esplodere: non fecero altro che aumentare la mole e la fame della Cosa.
I soldati non ancora consci di quel che avevano davanti ed essendo addestrati a non cedere, decisero di passare a qualcosa di un po' più drastico: il FIM-92 Stinger, missile terra-aria spalleggiabile. Ne avevano portato solo uno. Modellò la sua traiettoria ed esplose a pochi centimetri dall'Essere. Sembrò barcollare per qualche secondo, gli occhi dei diciassette mostrarono le sclere, le bocche a formare un grido muto, nero. Il fumo dell'esplosione si diradò e la Cosa era sempre lì, minacciosa; le mani vibravano formando increspature coreografiche, le palpebre si aprivano e chiudevano all'unisono le labbra pronunciavano parole senza voce, una nenia indistinguibile, di antiche parole. I militari più prossimi alla Cosa si accorsero di non poter più muovere nemmeno un muscolo, paralizzati sul posto. L'ammasso di carne, calcinacci e tubi che un tempo era una villa, mosse lentamente verso gli uomini, mentre il raggio d'azione della maledizione si espandeva, rendendo immobile tutto ciò che era organico. Il primo soldato raggiunto dalle propaggini della Cosa venne inglobato con una specie di risucchio e sparì nel giro di pochi attimi, fucile d'assalto compreso. Quelli che erano stati così fortunati da rimanere al di fuori del campo della maledizione compresero la gravità della situazione e si dedicarono a una fuga appassionata.
La Cosa fagocitava ogni oggetto sul suo cammino, lasciando dietro di sé terra brulla e grigiastra, radici ferite come lignee mani disperate verso il cielo e una bava organica stile lumaca.

Shlomo osservava tutto quanto a distanza di sicurezza, l’Idolo dei Garamanti stretto al petto. Immobile, non per effetto di un qualche strano incantesimo, ma in attesa di qualcosa che non aveva ancora ben compreso. Una sensazione che gli brulicava alla base del cranio e si propagava lungo la spina dorsale in stilettate ghiacciate. Percepiva che non era ancora il momento, mancava qualcosa: il catalizzatore, qualcosa che innescasse il processo e che portasse a buon fine tutto quanto.
La Cosa crebbe ancora superando le cime degli alberi che pian piano stava portando alla sua essenza ed ora oscurava il sole, come un'eclissi apocalittica.
Shlomo rimase fermo, attorno a lui il vuoto e foglie danzanti che assumevano forme antropomorfe.

Il paesaggio alpino scorreva ai lati del treno su vetri talmente lindi da sembrare una proiezione tridimensionale. Hans osservava i sempreverdi e i piccoli sentieri che si inerpicavano lungo le coste delle montagne e sentiva già nostalgia di casa. Il dolore procuratogli dall'umidità era sopportabile, la malinconia era qualcosa che non era mai riuscito a gestire. Non aveva paura. Sapeva a cosa andava incontro e non avrebbe dovuto provare nient'altro che un senso di pace definitivo. Le vie delle emozioni umane erano imperscrutabili e lui, nonostante non avesse nulla di normale, era, volente o nolente, un uomo.
Sentiva il richiamo, oltre a quello della Cosa-casa, anche quello più sottointeso, ma allo stesso tempo roboante dell'Idolo.
Non mancava molto, una manciata di chilometri e poi avrebbe raggiunto il suo destino, quello per cui era nato.
Le montagne lasciarono il posto alle colline, poi alla pianura e infine giunse a destinazione. Zoppicando salì sul primo taxi e si fece portare in prossimità del luogo. Il tassista si rifiutò di andare oltre, nemmeno pagando il doppio della corsa. Allora camminò, con fitte di dolore che gli risalivano dalla gambe fino alla radice dei capelli, e giunse alle spalle del vecchio.
"Sono qui," annunciò.
"Ti aspettavo," replicò Shlomo.

martedì 23 agosto 2011

Capitolo 18 - Memorie perdute


18 Ottobre 1865

Non è a cuor leggero che mi accingo a scrivere un breve resoconto degli eventi a cui ho assistito in gioventù.
Se avessi una possibilità di scelta, dimenticherei tutto. Avrei già dimenticato tutto da tempo. Ma le circostanze che mi hanno portato ad essere, per quanto mi sia concesso di sapere, l'unico testimone di ciò che ha dato origine alla maledizione di Villa Gatto-Borghi mi costringono, mio malgrado, a vestire i panni di cronista.

Quando fui preso come maggiordomo dai Conti Borghi, nei primi anni '10, avevo poco più di vent'anni.
Assieme al vecchio vedovo Cosimo Borghi, vivevano il figlio Lorenzo e la di lui moglie, Caterina.
Lorenzo, a quell'epoca trentacinquenne, a differenza del padre, che aveva acquisito un patrimonio ragguardevole attraverso una lunga carriera militare, aveva avuto l'opportunità di condurre una vita molto più agiata e per molti versi spensierata. Non era bello, ma l'educazione, la galanteria e la sua grande cultura lo rendevano senza dubbio un uomo affascinante. Non c'è da meravigliarsi se Caterina, una donna graziosa e minuta, la cui nobiltà si palesava più nei modi gentili ed educati che nel retaggio paterno, ne rimase ammaliata.

Ma la felicità è un bene illusorio. Dopo un paio di anni, il vecchio Cosimo morì serenamente nel sonno, ed era alle porte anche l'evento che cambiò per sempre la vita del povero Lorenzo, gettandolo in una disperazione da cui non l'ho mai visto riprendersi del tutto.
Era il 1815 quando Caterina morì di parto, portando con sé anche il nascituro.
Chi può biasimare il mio Conte Lorenzo se non seppe riprendersi da una simile tragedia?
Per quanto mi fu possibile cercai di essergli di qualche aiuto, ma si chiuse come mai l'avevo visto fare prima di quel momento, e finì col trascorrere la quasi totalità del suo tempo all'interno della ricchissima biblioteca della Villa.

In quel periodo stava iniziando ad diffondersi in tutta Europa l'aura misteriosa dell'Egitto dei faraoni. All'epoca non si sapeva praticamente nulla di questa antica civiltà, poiché i loro geroglifici, custodi di tutti loro più terribili segreti, sarebbero stati interpretati solo qualche anno più tardi.
Il mio padrone, come molti altri uomini di lettere del tempo, finì con l'interessarsi all'egittologia. Io stesso ebbi mano in questo suo rinnovato amore per la storia, sperando che potesse servire a distoglierlo dalle sue sventure. Ancora me ne pento, ed i sensi di colpa talvolta tornano a tormentarmi, ma a quel tempo come potevo prevedere tutte le conseguenze? Nessuno avrebbe potuto farlo.

Comunque, inizialmente sembrava funzionare. Lorenzo si appassionò in particolar modo alle avventure di un esploratore le cui origini non erano troppo lontane dai luoghi che chiamavamo casa.
Si chiamava Giovanni Battista Belzoni, un uomo gigantesco il cui nome era diventato leggenda molto prima che venisse associato all'archeologia. Mi piacerebbe parlare di più di questo viaggiatore, circense, ingegnere ed egittologo, ma conviene che mi attenga alla storia di Lorenzo.
Lentamente lo vidi rifiorire, e quando annunciò di volersi unire ad una delle spedizioni del Belzoni fui sollevato, nonostante il gravoso impegno economico che questo avrebbe comportato.
Era il 1817 se non ricordo male, ed al ritorno dall'Egitto il mio sventurato padrone pareva avere finalmente riacquistato la sua serenità. Era entusiasta di tutte le meraviglie che mi raccontava di avere visto, e non fui sorpreso di apprendere che si sarebbe unito al Belzoni, con cui aveva ormai stretto amicizia, anche l'anno seguente.
Da questo secondo viaggio riportò alla villa numerose statuette, amuleti e oggetti di culto. Questa volta mi raccontò poco delle sue esperienze, ed io non riuscii ad accorgermi del pericolo che ci attendeva.
Ma mi fu chiaro ben presto che per lui l'interesse si stava spostando dal piano culturale a quello più strettamente personale. Negli anni che seguirono quell'antica religione divenne per lui una vera e propria ossessione; il suo patrimonio divenne un serbatoio al quale attingere per accumulare antichità e procurarsi ogni possibile testo riguardante quel popolo.
Spesso aveva sonni inquieti, parlava ed urlava nel sonno. L'unica cosa che ricordo chiaramente a distanza di tutti questi anni è che chiamava frequentemente il nome di Caterina.

Nel 1822 uno studioso francese, tale Champollion, era riuscito a trovare il modo di decifrare i geroglifici; Lorenzo, che non attendeva altro, impiegò pochissimo tempo ad organizzare un nuovo viaggio e per farlo dilapidò quasi completamente le sue fortune: vendette terreni e tutto ciò che non gli era strettamente necessario, ed io rimasi l'unico membro della servitù.
Fu il ritorno più oscuro e silenzioso, ed il mio padrone iniziò a spaventarmi seriamente. Fra le altre cose, aveva riportato una cassa sigillata che non volle aprire se non dopo averla portata nello scantinato; lo aiutai, e quando fu scoperchiata mi si rivelò un manufatto in pietra nerissima, a forma di quella strana croce ad occhiello che gli antichi egizi rappresentavano spesso. Il suo aspetto era alquanto bizzarro: la sua superficie era simile a quella di una candela mezza consumata, sembrava che la pietra fosse fusa, liquida, ma al tatto era freddissima. Mi inquietò, e non la volli più vedere.

Lorenzo allestì un laboratorio nelle cantine, e passò gli anni seguenti a condurre ricerche ed esperimenti. Furono tutti infruttuosi, o questo è quello che pareva a quel tempo. Nel 1825, in preda alla disperazione, vendette la villa alla famiglia Verzeni e partì per l'ultimo suo viaggio. Non mi rivelò nulla, e non lo vidi mai più.
Me ne andai anche io, non volli rimanere in quel luogo che mi spaventava sempre più.

Le orribili vicende dei Verzeni alla Villa Gatto-Borghi sono note, e non mi ci dilungherò.
Ma non posso fare a meno di notare i punti di contatto fra la tragedia personale del mio padrone, la sua ossessione verso i miti di resurrezione di Osiride, il dio rappresentato sempre in verde, smembrato e riportato in vita con rituali magici, l'idolo senza alcun dubbio malvagio che si cela sotto la Villa e l'infestazione di muffe verdastre che l'ha colpita nei tempi recenti.
Mi sono convinto che Lorenzo avesse la disperata intenzione di riportare in vita Caterina con ogni mezzo e non riesco a togliermi dalla testa che i suoi esperimenti, nonostante non abbiano prodotto i risultati sperati, abbiano comunque avuto gravi conseguenze.

Questo è ciò di cui sono stato testimone.
Non so se è una scelta saggia rivelare questi segreti, ma so di essere in una situazione in cui sia parlare che tacere possono portare a conseguenze gravissime.
Spero solamente, se esiste una giustizia superiore, che questo mio scritto non cada nelle mani sbagliate.

venerdì 19 agosto 2011

Capitolo 17 - VIXI


Shlomo non riusciva a distogliere lo sguardo dalla Cosa emersa dalla rovina della villa.

Mani e teste mozzate.

Se a casa di Théodore Monod avesse avuto dubbi, ora sarebbero svaniti. La Cosa era identica a quella della foto del professore. Proprio come aveva sempre saputo.




Parigi, 1995

Il vecchio Monod faceva scorrere l’indice lungo le colonne del registro, leggendo sottovoce gli identificativi dei reperti.

«Quattro schegge di selce lavorata. Coprolite di coccodrillo.» Monod ridacchiò, come fosse una battuta. «Uovo di struzzo,» altra risatina. «Idolo: eccolo qui! Venga, monsieur Shlomo.»

Monod prese il bastone e si allontanò dalla scrivania a passo lento. Shlomo ebbe il tempo di sbirciare il registro. Non lo stupì che l’idolo fosse il diciassettesimo oggetto della diciassettesima pagina.

Shlomo seguì Monod fuori dallo studio ingombro. A passo di lumaca fino alla cucina, da lì nel giardino. Un vialetto li condusse a una dependance. Il professore aprì la porta: odore di asciutto, polvere, tempo. L’odore che Shlomo aveva sempre immaginato dovessero avere i musei.

Monod fece scattare l’interruttore della luce. Doveva essere stata una scuderia, ora era un magazzino: file di scaffalature di legno, i ripiani ingombri di scatole e casse di tutte le dimensioni. Placche di metallo lucido rilucevano alla testa di ogni scaffalatura.

«Su quale dobbiamo cercare?» domandò Shlomo. La placca dell’armadio più vicino aveva incisa la sigla “B6”.

«Scaffale A17, reperto 1717». Il professore si zittì, lo guardò: «Che coincidenza bizzarra, non crede?»

Shlomo rimase interdetto. Com’era possibile che Monod fosse così impreparato, addirittura stupito dalle coincidenze che circondavano l’idolo? Era stato lui a scoprire l’idolo nel deserto. Era stato lui chiamare Shlomo, a parlargli delle stranezze e coincidenza. Ma forse era solo un altro degli effetti dell’idolo.

Trovare la cassa non fu difficile, era la più grossa della scaffalatura A17: lunga e larga un braccio, alta quasi due spanne.

«Eccola qui, monsieur. Vado a prenderle qualcosa per aprirla».

Shlomo pensò di dire al professore che non serviva, che sapeva già che l’idolo era al suo posto. Ma poi avrebbe dovuto spiegargli che percepiva la presenza dell’idolo, una voce simile a quella di una villa abbandonata in Italia. Che non era ansioso di vedere che aspetto avesse l’idolo, nonostante fosse accorso a prenderlo.

Per quando Monod tornò con un piede di porco, Shlomo aveva tirato giù la cassa dal ripiano.

Il professore si frugò nella tasca interna della giacca.

«Questi sono per lei. Un regalo», disse allungando la mano. Tra le dita sembravano pendere braccialetti di corda.

“Roba da bambini?” Shlomo lo guardò senza capire.

Doveva avere un’espressione sdegnosa, perché Monod fu sul punto di rimettersi in tasca il “regalo”. Shlomo allungò la mano. Monod lasciò andare i braccialetti e lui avvertì qualcosa, un formicolio nel palmo prima ancora che gli oggetti lo toccassero. Avevano potere.

Non erano di corda, ma di lana porpora che odorava di cammello. Da ognuno pendevano una Mano di Fatima azzurra e un piccolo pendente di ceramica gialla. Studiò uno dei pendenti gialli. Gli scappò un sorriso, uno di quelli veri. C’erano incisi abbastanza simboli e parole di Grazia da farne un talismano di pace.

«Grazie, Monod. Il tuo è un dono carico di saggezza».

Monod sorrise.

Shlomo indossò i braccialetti, uno per polso. Monod gli allungò il piede di porco. Un braccialetto simile fece capolino dal polsino della camicia.

Shlomo cominciava a capire.

Il coperchio della cassa saltò via facilmente, rivelando uno spesso strato di imballaggio. Monod ne tolse una manciata.

C’era una cartelletta per documenti ingiallita. Monod la estrasse, ne sfogliò il contenuto e gli porse una fotografia in bianco e nero.

«È l’unica che abbiamo potuto fare ed è venuta male. Sono nel punto in cui era piantato l’idolo. L’ha scattata il mio aiutante: pessimo fotografo. Inoltre era il ’35, e il deserto non è mai stato clemente con le macchine fotografiche».

L’immagine era più nera che grigia. Monod trentenne, avvolto in un burnus, in posa davanti a un muro ruvido con rozzi disegni scuri, omini alti una spanna o forse simboli geometrici.

Sulla sinistra, quasi nascosta dalla penombra, troneggiava il disegno di una cosa simile a un tronco d’albero coi rami mozzati, alto quasi quanto Monod. Cose simili a mani si protendevano dal tronco. Pallini tondi bianchi con puntini scuri ornavano la cima: teschi.

«Ipotizzammo il tempietto fosse del I secolo d.C., ma non siamo mai più tornati in quella regione di deserto per studiarlo meglio», disse Monod, meditabondo. Shlomo annuì, gli restituì la foto e si chinò a togliere l’imballaggio rimasto.

Era la statua più brutta che Shlomo avesse mai visto, ma lui non ne capiva molto. Era una specie di verga di terracotta, lunga poco meno della scatola, con una “testa” bulbosa a un’estremità. L’altra estremità era appuntita. La sezione centrale della verga formava una sfera grossa come un melone. Un reticolo di linee era inciso sulla superficie della sfera, e ogni quadrato era occupato da una lettera latina maiuscola: una X, una I, una V.

«Tutt’ora non ho idea di cosa sia esattamente», disse Monod.

Shlomo estrasse dalla tunica un riquadro di stoffa e lo usò per sollevare l’idolo senza toccarlo. Era più leggero di quanto immaginasse. Studiò il reticolo di lettere attorno alla sfera. Proseguiva anche dietro.

«È una prigione, Monod. Sai perché si dice che il diciassette porti sfortuna?»

Monod sembrò perplesso dal cambio di argomento.

«Lo ignoro».

«Perché XVII è l’anagramma di VIXI.»

«“Io vissi”?»

«Ovvero “sono morto”. Chi creò quest’oggetto, vi imprigionò qualcosa. Lo chiuse entro un numero magico in verticale e parole di morte in orizzontale, interlacciate all’infinito».

«Quindi porterà via l’idolo, vero?» domandò il vecchio, speranzoso.



Oggi

L’aveva portato via.

Shlomo raccolse da terra l’Idolo dei Garamanti e se lo strinse al petto. Nessuno, dopo la prima occhiata, aveva prestato attenzione al suo fagotto. Nessuno lo faceva mai.

L'Idolo l'aveva chiamato, nel 1995: sapeva che lo avrebbe portato alla Villa. Ora vibrava di attesa. Shlomo vibrava di conseguenza, coi pendenti dei bracciali che tintinnavano allegri.

Se c'era riuscito qualcuno duemila anni prim, perché non doveva riuscirci lui?

domenica 7 agosto 2011

Comunicazione di servizio: Ferragosto e altri orrori

Buongiorno a tutti.
Un rapido riassunto della situazione...

Il capitolo di Goljadkin non si è manifstato, e non sono riuscito a contattare l'autore.
Frattanto, Ferragosto incombe.
Propongo allora quanto segue:
a . ci prendiamo otto giorni, fino al 15. Buone ferie a tutti.
b . se per il 15 non ci saranno state variazioni, la palla passa a Zeros, che ha come al solito quattro giorni per scrivere il proprio contributo.
c . dopo Zeros, facciamo rientrare Sekhemty, he così avrà modo di postare il proprio capitolo.
d . poi si riprende l'ordine normale... Davide Cassia, Fulvio gatti etc.

Buon proseguimento.