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giovedì 29 settembre 2011

Capitolo 6 - Balliamo?

La vedo, con i miei occhi lattiginosi vedo la ragazza alzarsi; la vedo andarsene verso la sala da ballo...

E quel coglione del suo ragazzo (ah, ancora per poco, perdio! Ancora per poco "coglione"! E pure "ragazzo", perdio!) che prende in mano nervosamente il cellulare... Che coglione, Cristo santo! Cosa vuole farci col cellulare nella Casa, eh? Mica pensa di usarlo per telefonare, eh?

L'altro gran coglione invece e' quasi commovente nella suo patetico timore, ma toh, guardalo adesso!
Sembra quasi che -concentrandosi su chissa' cosa- abbia trovato un minimo di consapevolezza e di coraggio... Sono quasi impressionato!

Guardalo la', il fidanzato abbandonato, come riprende pure lui colore e orgoglio. E -cazzo!- ascolta come si rivolge al suo patetico amico:
-Senti, io vado a cercala... Non vorrei che si mettesse nei guai.-
Nooo, gran coglione! Ma che vai a pensare? La tua donna nei guai? Ma scherzi? A quest'ora sara' gia' bell'e che morta, idiota! "Nei guai"... Ma Cristo santo cosa mi tocca sentire!

E l'altro gran coglione? Continua a dar prova della sua immaturita', girando il coltello nella piaga! Sentitelo, perdio!:
-Neanche un minuto senza di lei, eh?-
Ecco, ora vedrai si prendono a schiaffi...

No... peccato...

Il gran coglione sta controllando qualcosa nel suo assurdo marsupio, poi i due si incamminano per il corridoio senza fine della Casa. Quella che e' diventata la MIA Casa.

Vediamo quando capiranno di essere perduti, su!

E nel frattempo seguiamoli, i due coglioni.
Seguiamoli, mentre se ne vanno -guardinghi come Navy Seals- per il corridoio completamente nero di buio e di muffa; mentre cercano -tapini!- di arrivare chissa' dove.
Alla ricerca della squinzia che a quest'ora e' cibo per vermi!

Oh, guardali adesso, i due! Si, pare abbiano iniziato a intuire qualcosa!. Senti cosa dicono, i due?
-Non capisco...-
-Cosa?-
-Il corridoio con le finestre che fine ha fatto?-
L'ha mangiato il babau, il corridoio, no? Ma che cazzo di idioti... Manco c'e' gusto con questi qua!
-Un poco più avanti?-
-Avanti quanto? Sembra che stiamo sempre nello stesso posto non te ne sei accorto?-
Hihihihihi... Pero' devo stare attento, altrimenti mi scoprono subito, e il divertimento finisce!
Shhh, su! Silenzio, ora!
Zitti, che il gran coglione ha sentito qualcosa!
Su, dietro di me, svelti! E silenzio, perdio!
...
Cosa cazzo ha detto, ora? Cosa e' un "ciuski"?
E cazzo c'entra l'energia solare, quaggiu'?
Aaahhhh! E' una bella lampadona!
Hanno intenzione di fare un bel po' di luce! Bene, avviciniamoci, su!

Il gran coglione ha detto all'altro che gli dara' il via per accendere la torcia.
Pare che si sia accorto davvero di noi... Beh, bravo; e buone orecchie, dopo tutto.

Andiamo, su. Piano ma decisi, eh?
-ADESSO VAI!-
Cazzo, complimenti!
Gran bella luce, e gran bel disturbo ai miei occhi oramai quasi bianchi!
Ma adesso, ragazzi, giochiamo un po' sul serio, volete?

Dai, su, venite qua...

...fatevi baciare da Oberwalder!

domenica 25 settembre 2011

Il Primo Livello Segreto è Aperto

Bene - il Round Robin ha sedimentato abbastanza.
È ora di aprire i Livelli Segreti.
Come nei videogiochi della migliore tradizione, l'essere arrivati in fondo garantisce ai giocatori l'accesso ad una serie di extra.
Nuovi elementi del gioco.
Giochi nel gioco.
Più opzioni, più divertimento.

Il Primo Livello Segreto si intitola ....

domenica 11 settembre 2011

Capitolo 23 - Muffa


Alzo il braccio sottile di metallo cromato, lo ruoto verso il piatto e l’abbasso fino a che la puntina non tocca il disco che gira, incanalandosi. The Ink Spots, etichetta arancione, preceduta dai suoni gracchianti sputati fuori dalle casse marroni. Bastano le prime note… I don’t want to set the world on fire.
Lei è lì, seduta al tavolo al centro della stanza, muove la testa a tempo, fingendo un ritmo che non è suo. Assaporando la canzone, come se la capisse davvero.
Rumori vecchi di una vecchia casa, abitata dal tempo. Sono quelle sfumature a mancarmi, qui dentro, racconta. I ricordi sparsi ovunque, sulle pareti, sui mobili, come schizzi si sangue lavati via, che nessuno vede, ma che ci sono… Una casa possiede molte anime.
È un ambiente caldo, come un grembo materno. Come la luce del mattino che filtra dalle tapparelle.
Il vestitino è turchese, testa coi riccioli d’oro che asseconda la melodia, gambette che oscillano vispe, avanti e indietro, sfiorando con le scarpette nere laccate la testa di Bell, accucciato lì sotto. Con un pastello verde, Elga colora le sagome su un album da disegno.
«È stato allora che è arrivato Goldrake?» chiede.
Mi avvicino. Lei si gira sorridente, ha i denti piccoli.
Le sfioro il naso con la punta dell’indice. «No. Lo sai bene che non è arrivato Goldrake. Goldrake non esiste.»
«Ma quel monaco sì. E voleva prendermi. Voleva prenderci tutti, farci del male»
«Non è successo. E io ti ho portato qui dentro, ricordi?» dico, poggiando il palmo della mano sullo stomaco.
«E poi siamo arrivati qui. Insieme.»
«Non tornerà più, vero?» fa con la sua vocina.
Lo vedo ancora, Shlomo, che tenta di afferrarmi, per impedirmi di raggiungerlo. Vedo il braccio della creatura che afferra il suo. Glielo strappa che ancora stringe l’idolo tra le mani, insieme al busto, in un’onda di sangue e poltiglia. A cascata. E poi i capelli, la chioma dei nervi della sua spina dorsale recisa. Per un attimo ho creduto di scorgere un cespuglio di fibre ottiche…
La creatura si accascia poco dopo, ricoperta di uno stormo di uccelli arrivati per cibarsene. E accolti col lanciafiamme.
«Non tornerà.» dico.
Sul foglio di carta, le facce della famiglia nucleare sfoggiano sorrisi da clown, volti e arti di colore verde scuro, come la muffa.
Bell mugugna sotto il tavolo.
Le faccio una carezza sulla testa. Elga, mia sorella. È morta nel 1984. Aveva quattro anni.


La ragazza arriva dal corridoio, sistemandosi i capelli scuri con una forcina. Indossa una mia camicia e nient’altro.
«Parlavi con qualcuno?» domanda, sedendosi di fronte a Elga. E ancora: «C’è un po’ di caffè?»
Poi si dà una grattata sotto il colletto, tira fuori le dita, le osserva e impreca: «Cazzo, ho un fungo!»
Mi dirigo verso l’angolo cucina a preparare. Prendo la macchinetta dallo stipetto pensile. Da quello accanto, il vasetto del caffè.
«Ma davvero ti piace questa musica qua?» dice sciogliendo i capelli e ricominciando: «Sono cinquecento euro per la notte, ricordi?»
Annuisco. Sistemo la macchinetta sul fornello e l’accendo.
«Alla prossima facciamo da me.» riprende lei. «Questa casa la odio. Piccola e fatta male. Senza offesa, eh. Due stanze, un bagnetto e quel corridoio con quella porta che affaccia sulla cantina… È tua?»
«Sì. E non è così male. Crescerà, dagli tempo…»
Lei solleva le sopracciglia e abbozza un sorriso.
«Se lo dici tu.»
Alle sue spalle, Elga si infila i pollici nelle orecchie, sventola le dita, corruga le sopracciglia e tira fuori la lingua. Poi sgambetta nel corridoio, e di lì in cantina. Bell le va dietro, caracollando.
«Vado a prenderti i soldi.»
In camera da letto, preparo le banconote e stacco un sacco per l’immondizia nero, robusto, dal rotolo nel cassetto del comò. Lo infilo alla meglio nella tasca posteriore dei jeans. Mi guardo allo specchio. La piaga sullo zigomo ha ripreso a sanguinare. Capita tutte le volte.
«Spero non l’abbia pagata tanto. Secondo me t’hanno fregato.» dice la ragazza dall’altra stanza.
Torno indietro, lanciando le banconote verdi su tavolo, davanti a lei.
Questa le afferra, le conta, poi si affretta a rialzarsi: «Senti, non credo di avere tempo per il caffè. Grazie lo stesso. Ora mi vesto e vado via in un lampo. Alla prossima, ok?»
«D’accordo.»
Mi bacia sulla guancia destra, sporcandosi le labbra di sangue. Sorride.
Quando mi dà le spalle prendo il sacchetto, lo stendo, glielo passo veloce davanti al viso e tiro, trascinandola giù con me.
Ce ne stiamo stesi entrambi, io sotto di lei, fino a quando non la smette di sgambettare, picchiando le assi del pavimento coi talloni fino a sbucciarseli, e la mano che tenta di graffiarmi si adagia di lato, immobile.
Elga si affaccia alla porta: «Ti vuoi muovere, Hans?»


Ogni cadavere è diverso. Dall’addome squarciato della puttana è venuto fuori prima una palla di carne rossastra e lucida, poi il fetore.
Bell ci ha messo il muso sopra. Per cacciarlo è stata sufficiente una pedata. S’è rintanato in un angolo della cantina, sotto alcuni scaffali, muso a terra. Ci osserva. Ogni tanto si lamenta.
Io ed Elga affondiamo le mani e tiriano fuori gli intestini e il resto, imbrattandoci fino ai gomiti. Taglio dei tranci con un coltellaccio e insieme, accovacciati, spalmiamo carne, sangue, viscere e vita sulla superficie nera dell’uovo. Assorbe ogni cosa e torna a essere liscia e fredda. Opaca. Su di esso non si riflette la luce.
Elga ridacchia. S’è passata il braccio sulla fronte per detergersi il sudore. Ora è rossa.
Bell, dall’altra parte, si lecca i baffi incrostati di sporco.


Sotto il piccolo portico. Mi accendo una sigaretta. Faccio uscire il fumo dal moncone che è il mio naso. All’inizio pizzicava. Ora è inerte.
Dicono che io sia bellissimo. Lo dicono tutte le donne con cui sono stato.
Tossisco. Sputo. Insieme al catarro, per terra, c’è la muffa.
Tutt’intorno, le montagne stanno per addormentarsi, dietro una coltre di nebbia.

mercoledì 7 settembre 2011

Capitolo 22 - Un attimo prima, gli uccelli

Non la Legge, tentativo tutto umano di riportare la realtà all’armonia dell’Uno.
Santonastaso, Santini, Santovito, tutti avevano fallito, risposte deboli alla ricerca di un senso al buio conglobante, assorbente, unificante.
Non la chiesa, finzione, maschera grottesca di una fede vecchia, impotente e inutile, appesantita da mura, paludamenti e certezze costruite su menzogne di uomini.
Don Simone aveva provato, ma era stato facile preda di ciò che sta al di là del ponderabile, di ciò che sta nel palmo di una mano, e, alla fine, dei propri stessi sentimenti.
Il Sacrificio? Forse una risposta insufficiente e incompleta per allontanare l’inciampo dalla via della composizione degli opposti. E se non questo, allora cosa?
Cosa avrebbe potuto fermare la Disgregazione tanto invocata da salmi e preghiere blasfeme, da ciminiere ribollenti fumi di distruzione, da malvagità, egoismo e solitudine?
Quello che restava di Villa Gatto-Borghi separava ciò che la secolare scelleratezza dell’uomo (guerre, schiavitù, ghigliottine, ingiustizie) aveva risvegliato nella forma dell’uovo che non era un uovo, della Cosa-Casa (con le sue muffe e spore come elmetti, catene e lanciafiamme), e un uomo che aveva perso tutto ed ora era consapevole di un destino scritto e accettato da prima che prendesse carne, che tendini e nervi ricoprissero le sue ossa.
Doveva tentare, lo doveva fare per tutti quelli che erano morti in quella casa, da Caterina Borghi col suo bambino ad Armida, da Lalla a Rosa e don Simone. E per tutti quelli che erano morti ad Auschwitz e Leningrado, in ogni battaglia lontana e vicina, nelle piantagioni di cotone della Louisiana e nelle miniere di carbone del Belgio, cercando diamanti dall’Angola e alla Liberia. Per tutti i bambini terminati per fame in Somalia.
Ogni vita stroncata da un qualsiasi idolo di malvagità passò davanti agli occhi di Shlomo mentre guardava la Cosa-Casa e riandava con la memoria al bozzolo del Figlio che deglutiva il Padre, tramutandolo nella sua stessa realtà fetida e putrida.
Una nuvola oscurò per un istante il sole. E in quell'istante, il monaco capì che, forse, ce la poteva fare. Con l’aiuto di qualcuno; come il sole era stato liberato della nuvola da un alito di vento.
Shlomo volse lo sguardo per un attimo da Stakari-Botri  e cercò con gli occhi Hans, lo storpio senziente, colui che poteva aiutarlo a scacciare quella nuvola.
L’uovo che non era un uovo lanciò il richiamo (solo un attimo, per far capire che lui era lì e aspettava) e il cervello di Hans risuonò di mille campane scompagnate, mille guaiti e mille lamenti di neonati abbandonati al proprio destino sotto il sole dell’Africa.
Shlomo vide Hans chinarsi, rattrappirsi, stringendo gli occhi a fessura e le braccia al petto.
E poi guardò la Pala d’altare, inscritta d’immagini e segni, cercando il segno, la chiave per aprire la Cosa-Casa e arrivare al centro, alla mente di cui ancora non percepiva esattamente la realtà, all’uovo che non era un uovo, ancora sconosciuto alla sua mente limitatamente umana; ma chiara alla sua coscienza: se c’è un corpo, c’è una mente.
Uno stormo di uccelli stava veleggiando da est verso Villa Gatto-Borghi.
Shlomo e Hans lo videro e sembrarono perdersi in quella cartolina placida, come se il luogo e il giorno non fossero realmente quelli.
D’improvviso, giunto su quello che restava della villa, lo stormo si frantumò per il cielo, come se il boato di uno sparo di cannone l’avesse colpito.
Ma il silenzio abbracciava ancora tutto e nessun rumore lo aveva disturbato.
Il monaco ristette.
Poi sciolse il cordiglio bianco e si sfilò dalla testa il saio marrone: non aveva bisogno di protezione, ma di coraggio.
I due si guardarono negli occhi e si dissero in silenzio che il momento era arrivato.

sabato 3 settembre 2011

Capitolo 21 - L’abbraccio


Stefano abbracciò Bruno, incurante dei resti della sostanza nerastra. Il corpo del ragazzo era ancora ricoperto di quella poltiglia putrida, ma Stefano non la vide. I suoi occhi, già velati dalle lacrime, erano tutti per Bruno, per suo Figlio, finalmente libero e vivo. I suoni attorno a loro gli giunsero ovattati, come se tutti si fossero allontanati. Stefano sentì di essere solo, solo con lui. Anche la Cosa scomparve dalla sua mente, dalla sua vista.
Qualcosa però apparve poco distante, il suo sguardo lo registrò di sfuggita. Una figura che conosceva bene, una figura d’incubo, del suo incubo. Armida. Metà del suo corpo era come se lo ricordava, di un fascino e di una bellezza che mozzavano il fiato. L’altra metà, quella con la mano mancante, era la visione d’inferno che si era manifestata durante il suo arrivo alla Villa, qualche ora prima (ore? Secoli?): un fantasma, un morto, una Cosa. Armida reggeva la testa di Eva, dal cui collo mozzato gocciolava ancora del sangue. La Cosa-Armida sorrideva verso di lui, con un’aria di trionfo.
Stefano fissò lo sguardo su quello che rimaneva delle due donne della sua vita. Armida ed Eva, ricongiunte nell’abbraccio della Morte. Le guardò e le ascoltò, perché iniziarono a parlargli.
«Vogliono ucciderti!» esclamò la Cosa-Armida, e subito dopo prese a ridacchiare.
«Vogliono ucciderlo!» le fece eco la Testa-Eva, prendendo a singhiozzare.
I due avvertimenti si ripeterono in coro, alternandosi alle risa e ai pianti. Armida ed Eva si scambiarono le voci, le frasi si mescolarono, si spezzarono. Stefano lasciò andare le lacrime, sentendo ciò che Eva stava dicendo. Guardò gli occhi di Bruno, in cui la sostanza nerastra aveva preso ad agitarsi. Stefano non vedeva altro che il suo Bruno, pulito, perfetto, vivo. Qualcosa si ruppe dentro la sua mente.

Sholmo osservò la scena senza battere ciglio. Vide Stefano guardare il nulla e mettersi a piangere, sentì che qualcosa stava succedendo nella sua mente, capì che poteva essere già troppo tardi. Fece un cenno a Santonastaso, il quale si incamminò verso il Padre che abbracciava il Figlio.
Santonastaso avvertì a sua volta che qualcosa non andava, che qualcosa non era più come prima. Ne ebbe la conferma guardando al di là delle lacrime di Stefano, nei cui occhi iniziavano a formarsi grumi di quella sostanza maledetta.
I militari dietro Stefano videro il bozzolo risalire la schiena del Padre.
Bruno, muovendosi come in trance, aprì il marsupio e ne trasse qualcosa, qualcosa che diede al Padre. Era un piccolo coltello, dall’impugnatura nera. Di un nero molliccio. La lama cambiava forma e dimensioni di continuo, senza soluzione di continuità.
Santonastaso vide e capì che quell’arma apparteneva ad altri mondi. I militari sollevarono i fucili, Sholmo non battè ciglio, Santonastaso cercò di avvicinarsi cautamente. Stefano lo pugnalò con la Cosa-Coltello, osservando gli occhi dell’Uomo di Legge spegnersi.

Quel che successe subito dopo la morte di Santonastaso durò pochi attimi, pochi attimi in cui i presenti non riuscirono a muovere un muscolo. Stefano si chinò di nuovo su suo figlio. Entrambi erano visibilmente ricoperti dalla sostanza nera del bozzolo. Questa iniziò a espandersi e ingrandirsi. Li avvolse, mentre i due si stringevano in un eterno abbraccio. Il bozzolo si chiuse su Padre e Figlio, poi si alzò in aria e andò sulla Cosa-Casa, fondendosi con essa. La creatura parve fremere di gusto a quell’unione. Qualcuno giurò a se stesso di averla vista crescere dopo il ricongiungimento del bozzolo.

Hans distolse lo sguardo dal cadavere di Santonastaso, che iniziava già a decomporsi seguendo leggi biologiche non più terrestri.
«E adesso cosa facciamo?» domandò rivolto a Sholmo.
Il monaco strinse l’Idolo e osservò l’immensa creatura davanti a loro.
«Dobbiamo tentare. Dobbiamo tentare lo stesso.»

Sotto le macerie della villa, l’uovo che non era un uovo si mosse.