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venerdì 19 agosto 2011

Capitolo 17 - VIXI


Shlomo non riusciva a distogliere lo sguardo dalla Cosa emersa dalla rovina della villa.

Mani e teste mozzate.

Se a casa di Théodore Monod avesse avuto dubbi, ora sarebbero svaniti. La Cosa era identica a quella della foto del professore. Proprio come aveva sempre saputo.




Parigi, 1995

Il vecchio Monod faceva scorrere l’indice lungo le colonne del registro, leggendo sottovoce gli identificativi dei reperti.

«Quattro schegge di selce lavorata. Coprolite di coccodrillo.» Monod ridacchiò, come fosse una battuta. «Uovo di struzzo,» altra risatina. «Idolo: eccolo qui! Venga, monsieur Shlomo.»

Monod prese il bastone e si allontanò dalla scrivania a passo lento. Shlomo ebbe il tempo di sbirciare il registro. Non lo stupì che l’idolo fosse il diciassettesimo oggetto della diciassettesima pagina.

Shlomo seguì Monod fuori dallo studio ingombro. A passo di lumaca fino alla cucina, da lì nel giardino. Un vialetto li condusse a una dependance. Il professore aprì la porta: odore di asciutto, polvere, tempo. L’odore che Shlomo aveva sempre immaginato dovessero avere i musei.

Monod fece scattare l’interruttore della luce. Doveva essere stata una scuderia, ora era un magazzino: file di scaffalature di legno, i ripiani ingombri di scatole e casse di tutte le dimensioni. Placche di metallo lucido rilucevano alla testa di ogni scaffalatura.

«Su quale dobbiamo cercare?» domandò Shlomo. La placca dell’armadio più vicino aveva incisa la sigla “B6”.

«Scaffale A17, reperto 1717». Il professore si zittì, lo guardò: «Che coincidenza bizzarra, non crede?»

Shlomo rimase interdetto. Com’era possibile che Monod fosse così impreparato, addirittura stupito dalle coincidenze che circondavano l’idolo? Era stato lui a scoprire l’idolo nel deserto. Era stato lui chiamare Shlomo, a parlargli delle stranezze e coincidenza. Ma forse era solo un altro degli effetti dell’idolo.

Trovare la cassa non fu difficile, era la più grossa della scaffalatura A17: lunga e larga un braccio, alta quasi due spanne.

«Eccola qui, monsieur. Vado a prenderle qualcosa per aprirla».

Shlomo pensò di dire al professore che non serviva, che sapeva già che l’idolo era al suo posto. Ma poi avrebbe dovuto spiegargli che percepiva la presenza dell’idolo, una voce simile a quella di una villa abbandonata in Italia. Che non era ansioso di vedere che aspetto avesse l’idolo, nonostante fosse accorso a prenderlo.

Per quando Monod tornò con un piede di porco, Shlomo aveva tirato giù la cassa dal ripiano.

Il professore si frugò nella tasca interna della giacca.

«Questi sono per lei. Un regalo», disse allungando la mano. Tra le dita sembravano pendere braccialetti di corda.

“Roba da bambini?” Shlomo lo guardò senza capire.

Doveva avere un’espressione sdegnosa, perché Monod fu sul punto di rimettersi in tasca il “regalo”. Shlomo allungò la mano. Monod lasciò andare i braccialetti e lui avvertì qualcosa, un formicolio nel palmo prima ancora che gli oggetti lo toccassero. Avevano potere.

Non erano di corda, ma di lana porpora che odorava di cammello. Da ognuno pendevano una Mano di Fatima azzurra e un piccolo pendente di ceramica gialla. Studiò uno dei pendenti gialli. Gli scappò un sorriso, uno di quelli veri. C’erano incisi abbastanza simboli e parole di Grazia da farne un talismano di pace.

«Grazie, Monod. Il tuo è un dono carico di saggezza».

Monod sorrise.

Shlomo indossò i braccialetti, uno per polso. Monod gli allungò il piede di porco. Un braccialetto simile fece capolino dal polsino della camicia.

Shlomo cominciava a capire.

Il coperchio della cassa saltò via facilmente, rivelando uno spesso strato di imballaggio. Monod ne tolse una manciata.

C’era una cartelletta per documenti ingiallita. Monod la estrasse, ne sfogliò il contenuto e gli porse una fotografia in bianco e nero.

«È l’unica che abbiamo potuto fare ed è venuta male. Sono nel punto in cui era piantato l’idolo. L’ha scattata il mio aiutante: pessimo fotografo. Inoltre era il ’35, e il deserto non è mai stato clemente con le macchine fotografiche».

L’immagine era più nera che grigia. Monod trentenne, avvolto in un burnus, in posa davanti a un muro ruvido con rozzi disegni scuri, omini alti una spanna o forse simboli geometrici.

Sulla sinistra, quasi nascosta dalla penombra, troneggiava il disegno di una cosa simile a un tronco d’albero coi rami mozzati, alto quasi quanto Monod. Cose simili a mani si protendevano dal tronco. Pallini tondi bianchi con puntini scuri ornavano la cima: teschi.

«Ipotizzammo il tempietto fosse del I secolo d.C., ma non siamo mai più tornati in quella regione di deserto per studiarlo meglio», disse Monod, meditabondo. Shlomo annuì, gli restituì la foto e si chinò a togliere l’imballaggio rimasto.

Era la statua più brutta che Shlomo avesse mai visto, ma lui non ne capiva molto. Era una specie di verga di terracotta, lunga poco meno della scatola, con una “testa” bulbosa a un’estremità. L’altra estremità era appuntita. La sezione centrale della verga formava una sfera grossa come un melone. Un reticolo di linee era inciso sulla superficie della sfera, e ogni quadrato era occupato da una lettera latina maiuscola: una X, una I, una V.

«Tutt’ora non ho idea di cosa sia esattamente», disse Monod.

Shlomo estrasse dalla tunica un riquadro di stoffa e lo usò per sollevare l’idolo senza toccarlo. Era più leggero di quanto immaginasse. Studiò il reticolo di lettere attorno alla sfera. Proseguiva anche dietro.

«È una prigione, Monod. Sai perché si dice che il diciassette porti sfortuna?»

Monod sembrò perplesso dal cambio di argomento.

«Lo ignoro».

«Perché XVII è l’anagramma di VIXI.»

«“Io vissi”?»

«Ovvero “sono morto”. Chi creò quest’oggetto, vi imprigionò qualcosa. Lo chiuse entro un numero magico in verticale e parole di morte in orizzontale, interlacciate all’infinito».

«Quindi porterà via l’idolo, vero?» domandò il vecchio, speranzoso.



Oggi

L’aveva portato via.

Shlomo raccolse da terra l’Idolo dei Garamanti e se lo strinse al petto. Nessuno, dopo la prima occhiata, aveva prestato attenzione al suo fagotto. Nessuno lo faceva mai.

L'Idolo l'aveva chiamato, nel 1995: sapeva che lo avrebbe portato alla Villa. Ora vibrava di attesa. Shlomo vibrava di conseguenza, coi pendenti dei bracciali che tintinnavano allegri.

Se c'era riuscito qualcuno duemila anni prim, perché non doveva riuscirci lui?

6 commenti:

  1. Ottimo, Vixi. Attendo con curiosità gli sviluppi della vicenda. In tutti le possibili direzioni del tempo...

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  2. Spettacolo, applaudo a piene mani.

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  3. Grazie Angelo, sono felice che il "tuo" Shlomo in mano mia ti sia piaciuto, spero di non avergli fatto perdere il suo carisma ;)

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